Un dipinto di Tadini della fine degli anni Cinquanta
Francesco Tadini come altre volte, invita a visitare il sito in corso d’opera dell’Archivio Tadini. Oggi proponiamo, di Emilio Tadini, un’altra tappa di questa serie di testi che definiremmo reportage d’autore. Da Ignazio Porro a Angelo Salmoiraghi, storia di un successo industriale…
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E. Tadini, Precisione. Quasi una ninfa sfuggente, in “Civiltà delle Macchine”, 1954
“Basta pensare che l’esattezza di una misurazione di livello può essere compromessa, sui livelli normali a bolla, da un semplice raggio di sole che batta su una gamba del treppiede di sostegno.
Ufficiale del genio nell’esercito piemontese fino al 1842, e chi sa più se fece battaglie: comunque Ignazio Porro – l’ingegnere Ignazio Porro – non bisogna tanto immaginarselo in vesti militari. Si può dire che egli è una delle personalità più importanti della tecnica italiana del secolo scorso, anche se una delle meno conosciute. Le sue scoperte nel campo della meccanica di precisione e dell’ottica in generale, e in quello degli strumenti per la rivelazione topografica in particolare, rimasero veramente fondamentali- fu lui ad approntare praticamente il primo tacheometro, oltre agli strumenti per costruirlo, e ammettere così a punto i nuovi sistemi di misurazione che ancora adesso vengono perfezionati ma non mutati. L’ex ufficiale non sapeva unire un pratico senso di organizzazione alla sua lucida capacità di intuizione scientifica, e vari suoi tentativi industriali finirono malamente. Ma fu lui che a Milano – dove insegnava clerimensura – fondò nel 1865 l’officina scuola che poi doveva essere ingrandita e trasformata su un vasto piano industriale da Angelo Salmoiraghi.
Questa è l’origine della «Filotecnica Salmoiraghi», la fabbrica milanese di apparecchi di precisione in cui attualmente lavorano quasi 750 tra operai e impiegati. La produzione basilare della fabbrica è quella di strumenti di topografia. Si può dire anzi che sino al periodo dell’atra guerra i vecchi apparecchi della Salmoiraghi, dalle forme complesse, un po’ simili a vecchie Ford, battevano ogni concorrenza, anche estera. Verso il 1925 per esempio i libri di testo per le università riportavano riprodotti quasi esclusivamente strumenti della Salmoiraghi. Nel periodo tra le due guerre la concorrenza si fece sentire più acutamente, sia dalla Germania che dalla Svizzera: e in quest’ultimo paese oltre a tutto la «Wildt» (fondata da un ingegnere che aveva lavorato alla Zeiss) ebbe modo di progredire approfittando anche delle particolari condizioni di neutralità del paese in cui lavorava.
La produzione di materiale bellico, e il calare delle richieste di strumenti di uso civile quali quelli topografici, fecero subire un arresto agli esperimenti: e alla produzione della Salmoiraghi in tempo di guerra. (Nota di Francesco Tadini: nel corso della Seconda Guerra Mondiale l’azienda diviene obiettivo bellico: gli stabilimenti in via Raffaello Sanzio a Milano sono bombardati) Ma ora si sta procedendo a elaborare nuovi perfezionamenti: e i frutti più recenti di questi studi e di queste esperienze sono tra l’altro il livello automatico (in cui mediante la sospensione del corpo indicatore sono eliminate le conseguenze di eventuali minime alterazioni), e il tacheometro autoriduttore (per la rapida lettura delle distanze inclinate, che vengono automaticamente ridotte all’orizzonte).
Altri reparti della produzione della Salmoiraghi sono: l’occhialeria, l’aeronautica (strumenti per il volo), la meteorologia (ogni tipo di strumenti misuratori), gli strumenti per disegno, la termotecnica (strumenti per la misurazione di portate di fluidi, pressioni, temperatura, livelli, umidità). Quest’ultima branca, di applicazione vastamente industriale, è stata iniziata nel 1931.
Senza sapere niente di una fabbrica come questa, prima di visitarla io mi affidavo a una serie di immagini molto grossolane. Facevo quell’operazione volgare che in fondo però è naturale per chiunque ignori tutto di qualche scienza applicata: risolvevo cioè la complessità di una elaborazione scientifica – che sentivo confusamente, senza poter rendermene conto – nell’immaginarmene una forma complicata e strana, fuori delle forme comuni tra cui si vive (semplici perché conosciute con la frequentazione). La forma degli strumenti che mi mostrarono alla Salmoiraghi fu dapprima una specie di delusione. Nessuna complicazione facilmente percepibile e identificabile. Guardando per esempio i tacheometri mi accorgevo che le linee della forma non erano divergenti, centrifughe (le linee che si staccano da una centro sono un’ovvia immagine della complicazione). Anzi, tendevano a racchiudersi, a concentrare nello spazio il gioco degli strumenti. E questo nona avveniva perché un «disegno industriale» inteso a rovescio mascherasse assurdamente le strutture attive: come mi diceva l’ingegner Bruscaglioni (che fu molto gentile a guidarci nella visita e a rispondere a tutte le nostre domande), è stato attraverso esperimenti durati anni e anni che si è giunti a ridurre la linea di forza degli strumenti alla massima semplificazione, perché massima potesse essere la libertà della precisione. Le mie fantasie dovevano lasciar posto ad una immagine più chiara. Ma in sostanza si trattava di concretare in una serie di contenuti la «complicazione» (come eccezionale capacità di funzionamento, adesso) di quegli strumenti, per non limitarsi più ad astrarla in una serie di forme. Ho visto su vecchi cataloghi che se mai i teodoliti fabbricati al tempo della guerra erano impostati su quelle forme complesse e divergenti che io «mi aspettavo» andando a visitare la Salmoiraghi. Erano strumenti che, pur funzionando perfettamente, potevano essere usati soltanto con estrema lentezza, e dovevano essere assestati con tutta una serie di manovre. Le linee semplici e racchiuse degli strumenti attuali dipendono proprio dalla necessità di limitare al minimo le dispersioni, le possibilità di sbaglio, e insieme di ottenere una estrema velocità di funzionamento. Ma c’è un fatto molto interessante e significativo: molti geometri, o capimastri, possessori di uno di quei vecchi strumenti, nutrono una straordinaria fiducia nella loro forma così chiaramente complicata. Vi distinguono tangibilmente l’immagine dell’oggetto «scientifico», e sono sicuri della sua precisione assoluta. Non riescono a «vedere» altrettanto bene la precisione e la perfezione negli apparecchi più nuovi, proprio perché questi, probabilmente, sembrano loro troppo facili formalmente. In fondo è una specie di inconscia passione per un certo ornato meccanico: anche se si crede che sia un’esigenza di sostanza. Così il mercato è molto lento nell’accettare i tipi nuovi di tacheometri, rapidi e precisi, e spesso arrivano alla fabbrica per costose riparazioni teodoliti di vecchio tipo, acciaccati da anni di uso. E ancora un altro fatto: i sestanti che vengono fabbricati per la marina conservano ancora adesso la loro forma tradizionale. Sarebbe possibilissimo semplificarla, e questo renderebbe anche più agile il loro funzionamento. Ma si sa che strumenti nuovi entrerebbero con estrema difficoltà in un ambiente quale quello cui sono destinati: e questo per ragioni di pura tradizione formale. Così tutte le fabbriche, italiane e straniere, continuano a produrre sestanti del solito vecchio disegno.
Come si vede anche molti di coloro che non sono del tutto profani, restano istintivamente fedeli ad una immagine piuttosto infantilmente formale della scientificità. Arrivare a sentire per istinto la semplice concretezza della precisione è evidentemente la conquista più difficile. In ogni caso certo questo è tanto più naturale quanto più è immediato e quotidiano un rapporto con le esigenze del costruire, e pertanto con la materia da formare. È questo rapporto chiarificatore, acutizzato al massimo, che impone ad una fabbricazione come quella della Salmoiraghi il suo carattere precipuo di precisione assoluta. Bisogna che ogni pezzo sia perfetto, perché basterebbe la anche minima irregolarità a turbare l’equilibrio totale, e in modo comunque decisivo. Si ingigantirebbe negli effetti l’irregolarità irrilevante in partenza. La fatica per l’equilibrio assoluto è qui frantumata e moltiplicata nella fatica per l’equilibrio di ogni minimo particolare.
Uno degli esempio più emozionanti di questa necessità di precisione estrema nella fabbricazione, è senza dubbio offerto dal reparto dove lavorano le macchine che incidono, sulle lastrine di vetro destinate ai tacheometri, le linee di lettura (dal cui rapporto con quelle inquadrate sulla stadia esca l’’indicazione della distanza). Basta naturalmente il minimo spostamento di una incisione perché la lettura venga completamente alterata. Le macchiane lavorano in una stanza completamente isolata dalla luce, dal sole, dal caldo, dalle vibrazioni. Sono grandi e rotonde, lavorando da sole lente ed esattissime, come dei piccoli elefanti che infilino degli aghi. La lastrina di vetro è posta al centro della macchina che la fa ruotare con impercettibili movimenti silenziansi e che abbassa la sottile punta d’acciaio capace di effettuare incisioni di 3 millesimi di spessore al punto giusto. Ci vogliono varie ore perché la lastrina sia preparata, e basta la presenza di qualche persona perché i congegni siano impressionati. Vicino alle macchine recentissime, di fabbricazione svizzera, ci sono ancora le vecchie macchine costruite da Ignazio Porro con un incredibile lavoro a mano, quelle che hanno fatto i primi strumenti che diedero fama alla Salmoiraghi: e sono in grado di funzionare ancora con tutta la precisione necessaria.
Appena si conoscono, anche superficialmente, i proemi che è necessario affrontare nel corso di lavorazioni di questo genere, quella assoluta precisione sempre indispensabile, appare enormemente più difficile di quanto poteva sembrare dall’esterno. Chi pensa a questo lavoro, sottintendendo il concetto usuale e astratto che si ha della materia, può pensare che si tratti semplicemente di arrivare ad un determinato punto di esattezza, sia pure con difficili procedimenti: una volta impostata la possibilità di raggiungere quel punto di sicurezza il lavoro non dovrebbe essere altro che un succedersi regolare di identiche operazioni. Questo è vero ma non sempre. Comincia a non esserlo più quando entra in gioco l’estremo e sensibilissimo dinamismo della materia. È proprio quella riduzione alla precisione assoluta che rivela con chiarezza quanto sia cedevole e mobile la materia apparentemente più chiusa. È tutta questione di restringere al minimo la tolleranza: e la struttura più rigida svelerà le sue sotterranee fluttuazioni. Ancora una volta il calcolo dovrà essere fatto con su una comoda immobilità, ma su un fluire di forze. Questa sensibilità estrema della materia che apparentemente sembra fissata in una struttura inerte, deve essere evidentemente calcolata, nella lavorazione, con l’attenzione più esperta, quasi controllata caso per caso.
(Naturalmente non so resistere alla tentazione di seguire le associazioni delle idee. Certo è che se una lezione può uscire da queste osservazioni, essa dovrebbe essere impostata su un tema assai istruttivo: sul danno che può derivare dall’accontentarsi di catalogare una immobilità là dove folti movimenti sono soltanto più oscuramente nascosti. E d’altra parte si può dire che uno è tanto più vivo quanto più sente ciò che intorno a lui vive e si muove, quanto meno dà fiducia all’inerzia. Si può arrivare a questo punto osservando la costruzione di uno strumento topografico? Il passaggio è forse un po’ troppo volonteroso. Ma forse no. Cercare di vedere bene una cosa, e riuscire almeno in parte a farlo, vuol sempre dire acquistare una esperienza: e una vera esperienza non è mai solo limitatamente oggettivata, ma si può subito servirsene in una serie di rapporti).
In un campo come questo dell’estremo dinamismo della materia, le possibilità dei sensi dell’uomo sono enormemente superate dalla capacità di osservazione e di calcolo della sua mente. E nella costruzione di questi strumenti, in sostanza, l’uomo rende praticamente attive le sue possibilità mentali. La cosa più emozionante è il constatare in atto il rapporto perfetto tra quella compiutezza di calcolo mentale e la sua realizzazione: il suo farsi in qualcosa di materialmente funzionante. Si illumina di tutto il suo valore quel carattere di precisione che definisce queste fabbricazioni. L’autolivello cui prima si accennava è uno strumento la cui ideazione illustra proprio quel calcolo sull’elasticità estrema della materia. È stato messo in cantiere quasi un anno fa e ci sono voluti più di sei mesi per approntarlo. L’apparato indicatore è sospeso a un complesso di fili, e per ciò stesso tende automaticamente alla posizione orizzontale. È il principio del filo a piombo. (Anche una casa tedesca ha in commercio uno strumento basato su un principio analogo, ma lo ha realizzato in modo molto meno facile, e costa quasi il doppio di questo). È molto semplice rendersi conto delle ragioni che hanno guidato i tecnici della Salmoiraghi a studiare questo strumento. Basta pensare che l’esattezza di una misurazione di livello può essere compromessa, su livelli normali a bolla, da un semplice raggio di sole che batta su una gamba del treppiede di sostegno: questa, scaldandosi, si altera di quantità assolutamente incontrollabili, ma che sensibilizzano immediatamente lo strumento.
Va da sé che dagli operai che lavorano a queste produzioni si esige un grado altissimo di specializzazione; e non come abitudine al gesto perfetto e stabilito, ma come particolare attitudine nei riguardi di un identico equilibrio da raggiungere in ogni caso con elementi che no in ogni caso sono proporzionalmente identici. Come si è detto, la materia, quando la tolleranza del suo gioco è ridotta all’ordine dei micron, rivela inaspettate fluttuazioni, e pone ostacoli che non è possibile prevedere con assoluta esattezza in generale. Questo fatto è percepibile con particolare chiarezza nel reparto dell’«ottica fina», dove vengono fabbricate tutte le parti ottiche che interessano gli strumenti di precisione. Qui, ancora una volta, quello che stupisce non è tanto la perfezione dei macchinari, quanto quella del lavoro degli operai. Il rapporto tra il mezzo meccanico anche più sbalorditivo in se stesso e l’uomo, è naturalmente sempre fondamentale: talora il sottovalutarlo o l’ignorarlo dipende da una certa cecità di costume, che tende a regalare al mezzo meccanico una specie di assurda e immeritata vita autonoma.
Ma in un luogo come il reparto dell’«ottica fina» alla Salmoiraghi, quelarapporto è chiarificato in termini estremamente semplici, nella esattezza quasi impensabile con cui si lavora. Il perfetto funzionamento degli strumenti di precisione non è frutto astratto: risulta esclusivamente dal micrometrico equilibrio che si riesce a conseguire soltanto con l’esatta messa a punto dei sigli pezzi.
Questi operai lavorano su una materia che, sollecitata dall’estremo, diventa incredibilmente elastica. Il vetro sembra diventare gomma, minime cariche di precisione o di calore bastano ad alterarlo, a deformane la struttura. Si può constatarlo a occhio nudo osservandone le frangente di interferenza. Basta che nel montare una di queste lenti la pressione del metallo sia minimamente irregolare, perché il funzionamento dello strumento ne risenta in modo gravissimo. Ed è merito di una precisa organizzazione di lavoro – che può oltre a tutto contare su una vastissima esperienza e su una ricca tradizione – se si ottengono risultati perfettamente rispondenti al calcolo. Un operaio, comunque, deve avere una speciale attitudine: e ci vogliono quattro o cinque anni perché possa essere in grado di lavorare in un reparto come questo.
L’apparecchio forse più teatralmente emozionante di quelli che si fabbricano alla Salmoiraghi è l«autopilota». È, come si sa, una macchina servita da un complesso di strumenti, che, una volta sistemata, serve a mantenere la posizione degli aeroplani in volo. Gli strumenti sono la girobussola (bussola collegata ad un giroscopio per eliminare gli inconveniente delle oscillazioni); l’orizzonte artificiale (per indicare l’assetto verticale e orizzontarle dell’aereo); l’indicatore di virata. L’autopilota riceve le indicazioni da tutti questi strumenti e manovra automaticamente sugli alettoni e sul timone perché la posizione dell’aereo sia costante. Indubbiamente questo è uno strumento che impressione quando lo si vede funzionare al collaudo, e deve impressionare ancora di più a vederlo in volo. Ma non è stato quello che mi emozionato di più. La simpatia che mi ispirava era forse limitata dal fatto che tra la sua azione e i gesti dell’uomo non c’è rapporto di concorrenza e di integrazione: li sostituisce soltanto, in modo automatico. Serve a stabilizzare una situazione fissata, non a penetrare una situazione sconosciuta, o a mutarne una che va mutata.
Mi rendo conto che parlare di simpatia nei riguardi di strumenti meccanici è certo poco ragionevole. Ma certo mi sono sembrati molto più emozionanti gli strumenti minatori, anche se non molto più semplici. I techeometri, o i sestanti, o tutti misuratori meteorologici. Il fatto che rende tanto interessante l’azione di questi strumenti è che essa comunica direttamente con la presenza dell’uomo. È come se questi potesse prolungare le limitate possibilità dei suoi sensi. Con i suoi soli sensi all’uomo sarebbe impossibile stabilire una distanza, o una posizione. Perciò la sua mente può strutturare il processo mediante il quale quei dati possono essere stabiliti: e gli apparecchi misuratori sono la traduzione concreta di quel calcolo mentale. Agiscono nella foresta oscura di elementi non percepibili direttamente dall’uomo, e traducono quello che era un mistero in termini umanamente comprensibili. Forniscono una serie di simboli che chiude in una rete di possibilità attive elementi che altrimenti sfuggirebbero alla conoscenza precisa. Ci sono centinaia di strumenti la cui complicazione e la cui «autonomia» d’azione possono sbalordire. Ma credo che quello semplici e perfetti che possiamo chiamare misuratori, indicatori (di ogni tipo, dai più elementari ai più elaborati), rimangano sempre tra i più emozionanti. È così facile riportare la loro sostanza alle decisioni d’ordine dell’uomo. E nell’impraticabile deserto in cui, per l’uomo organizzato collettivamente, si disfarebbero le quattro dimensioni se esse non fossero misurabili, questi strumenti offrono un mezzo di dividere, di conoscere e di concretare in termini di possibilità umana. Emilio Tadini
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Invitandovi a visitare il sito periodicamente (e a porre domande ed eventuali osservazioni e consigli) – http://francescotadini.net/ - Francesco Tadini vi saluta cordialmente e augura ai più fortunati un buon proseguimento di vacanza.