Fa freddo a Bilbao e, chissà perché, non avevo minimamente preso in considerazione il fatto che potesse fare freddo in Spagna. C’è questo vento freddo che schiaffeggerà le gambe e i piedi sempre troppo nudi per i giorni a seguire ma che mi farà tornare a casa la sera sempre più abbronzata e senza fatica. Perché camminiamo un sacco, non ci fermiamo mai. Abbiamo da andare sull’oceano a sentire ancora più freddo e a farci le guance rosse, un po’ per il sole un po’ per il vino che accompagneranno tutte le tapas che mangeremo senza mai stancarci di provarne di nuove, di fermarci al bancone con altre persone senza orari di pranzo o cena. “Hai visto questo? Ci fermiamo?”.
Per tornare a casa la sera possiamo anche costeggiare il Nerviòn sul quale si specchia il Guggenheim ed è la prima cosa che vedo di Bilbao: ci restiamo il tempo di un paio di sigarette, quasi mezzanotte, nessuno in giro. È fermo, quieto, silenzioso, fa paura. Saliamo sul ponte che lo costeggia, dove ci corrono le macchine accanto, fa ancora più paura eppure è ipnotico. Di giorno è bello, mi piace guardare le persone che lo fotografano, che fotografano Puppy e lui sullo sfondo, mi piace visitarlo e partecipare all’impazzimento collettivo dei musei di arte contemporanea ad agosto. Ma è quando ci passo accanto di sera che non riesco a smettere di guardarlo.
Da Bilbao, per tre giorni, non stiamo mai fermi.
Siamo a Portugalete con il cielo grigio che ha lo stesso colore dell’oceano fermo e della sabbia bagnata piena di minuscole conchiglie e gusci di crostacei. Il paese è puntellato di bandiere basche, in ogni bar c’è sempre qualcuno a bere e mangiare, sempre qualcuno pronto a chiacchierare, in un basco che non capiamo ma che non ci impedisce comunque di parlare con tutti, tra una tapas e l’altra.
Siamo a Bermeo e Mundaka: è ferragosto e la gente è allegrissima e tutte le persone che non abbiamo ancora visto a Bilbao sono qui, nella piazza di Bermeo, nel porticciolo di Mundaka, a bere, a ridere, a ballare, a baciarsi, a giocare, a richiamare i bambini che si allontanano. E siamo sull’oceano aperto, le onde si rompono sui frangiflutti di Bermeo e sulla scogliera di Mundaka con una violenza spaventosa eppure contemporaneamente rilassante. La schiuma che si crea con lo scontro dell’acqua sulle rocce è densa e bianca e svanisce in pochi attimi in mulinelli che ricreano nuove onde, nuova schiuma, nuovi mulinelli. Spariscono le nuvole e il sole diventa caldo.
(Quando sei davanti all’oceano e sai che davanti a te non c’è niente o almeno per molti chilometri non ci sarà niente, le cose prendono ad vere una prospettiva diversa. Perché tanto quello che resta è solo il suo rumore e il vento che si sforza di essere dolce ma che si posa sempre freddo sulla pelle abituata alla brezza del mediterraneo. E questo basta: posso fare tutti i giri che voglio, camminare lungo le strade delle città o fermarmi nei vicoli in salita a mangiare polipo, bere vino, guardare le persone, sempre e ovunque, provare ad entrare nelle loro storie, ma alla fine il rumore che fa il mare, che fa l’oceano quando sai che per molti, moltissimi chilometri, non ci sarà terra ferma, alla fine, questo, è ciò che mi fa stare meglio al mondo).
Siamo a San Sebastiàn a mangiare pesce e fare bagni di corsa per andare a recuperare le nostre borse che la marea sta per portarsi via, a passeggiare tra le persone uguali a tutte le persone che la domenica vanno al mare, a rassegnarci alla marea, che non ci sono santi, puoi spostarti quanto vuoi, coprirà tutta la spiaggia dove sei e non puoi fare altro che risalire sul lungomare, costume bagnato e sale sulla pelle e portarti un senso dolce di impotenza e di rispetto nei confronti dell’oceano, oltre alla sabbia bagnata sulle asciugamani che peseranno il doppio.
Siamo ad Oviedo e poi siamo a Gijón, due giorni nelle Asturie, incrociando sconosciuti sulla via di Santiago e accanto alle chiese con le conchiglie dorate a terra a segnare il percorso che si augurano “Buen camino”, scogliere a picco sul mare, surfisti, animali al pascolo.
Oviedo è cupa e piovigginosa, il freddo si attacca sulla pelle come l’odore disgustoso del sidro che bevono tutte le persone sedute nei bar e nei ristoranti. Le vie del centro sono semivuote, tutti sono concentrati nei locali a bere e mangiare, le luci gialle piene dei lampioni, puntate sulle chiese e sui palazzi, rendono l’atmosfera, ancora più cupa, di un ovattato inquietante. È affascinante come città eppure allo stesso tempo respingente. Però di notte, sulle nostre teste ci sono un sacco di stelle, anche se non ne cade nemmeno una.
Gijón è blu e di sole ed è impressionante come basti scendere dalla collina di Oviedo per ritrovarsi di nuovo travolti da cielo, vento e oceano. Nuoto tantissimo a Gijón e mi piace sentire quanto gelida diventi l’acqua man mano che mi allontano dalla riva e vado più in profondità. Come in tutti i mari in cui mi immergo, anche qui resto sott’acqua fino all’attimo prima della fine dell’ossigeno, con il corpo completamente vuoto, la sensazione del sangue che mi va alla testa. E con gli occhi aperti vedo da sotto la superficie il profilo sfocato e tremolante della Chiesa di San Pedro affacciata sugli scogli. Scappiamo ridendo come sempre dalla marea che non ne vuole sapere niente di tutti noi stesi al sole e che nel giro di un’ora rende la spiaggia solo un ricordo e fa diventare il mare profondo tanto da potersi tuffare dai muretti.
Camminiamo verso una collinetta verde e ci stendiamo al sole e al vento mentre un deltaplano ci vola a pochi metri dalla testa e quando passa davanti al sole, oscura per un attimo il prato e seguiamo l’ombra delle gambe che muove per virare.
E per un attimo, sono anche io cielo, sono vento e sono oceano.
Bilbao, su ogni ritorno, ci accoglie sempre meglio del giorno prima. L’ultimo giorno c’è anche il sole e le vecchie in bus si meravigliano dei 33 gradi che ci sono. Faccio la fila con delle bambine per prendermi un gelato al dulce de leche, lo mangio passeggiando sotto al Guggenheim, ci fermiamo in un parco, troviamo il bar più bello di Bilbao, la gente sembra tranquilla e felice di essere qui e adesso e mi sento parte di questo flusso, della gente che ride, dell’acqua che corre e si mischia all’oceano.
Archiviato in:Parole