Franco Citti viene scoperto da Pier Paolo Pasolini per il quale impersona il protagonista del suo film Accattone. L’anno seguente è Tommaso in Una vita violenta di Paolo Heusch e Brunello Rondi. Nel 1967 è Edipo nel film Edipo Re. L’anno dopo è un trafficante d’armi in Somalia nel film di denuncia Seduto alla sua destra di Valerio Zurlini. Tornerà nuovamente a essere diretto da Pasolini. È un cannibale in Porcile (1969), Ser Ciappelletto ne Il Decameron (1971), Satana ne I racconti di Canterbury (1973) e un demone ne Il fiore delle Mille e una notte (1974). Nel 1970 è il protagonista del film Ostia, esordio alla regia del fratello Sergio. Interpreterà per lui altri film, scritti dal fratello assieme all’amico Vincenzo Cerami, come Storie scellerate (1973), Casotto (1977) e Il minestrone (1981).
Nel 1998 ha esordito nella regia dirigendo, «con la fraterna collaborazione di Sergio Citti» (come recitano i titoli di testa), se stesso e Fiorello in Cartoni animati, ultimo respiro della poetica pasoliniana, dove Citti torna quasi a rivestire il ruolo di Accattone. Ha partecipato inoltre al documentario di Ivo Barnabò Micheli A futura memoria (1985) e a quello di Laura Betti Pier Paolo Pasolini e la ragione di un sogno (2001).
È stato attivo anche in teatro (I giganti della montagna e Tamerlano, nel 1989, per la regia di Carlo Quartucci) e in televisione (I promessi sposi, 1989, di Salvatore Nocita)
Nel 1962 Pasolini lo ha descritto con queste parole: «Ancora cucciolo, timidissimo, con gli occhi d’angoscia della timidezza e della cattiveria che deriva dalla timidezza, sempre pronto a dibattersi, difendersi, aggredire, per proteggere la sua intima indecisione: il senso quasi di non esistere che egli cova dentro di sé. Per contraddire questa sua ingiusta incertezza d’esistenza, egli non ha altri strumenti che la propria violenza e la propria prestanza fisica: e ne fa abuso. (…) Come tutti coloro la cui psicologia è infantile, Franco ha un profondo senso della giustizia. Sente profondamente la propria colpa quando commette qualcosa di ingiusto e non sa ammettere che altri compiano qualcosa di ingiusto. Questa consacrazione, avvenuta nella sua infanzia, di un fondamentale senso di giustizia, e quindi di colpa, fa sì che tutta la sua vita sia pervasa da qualcosa di mitico, di rigido, di immodificabile (come in tutte le consacrazioni). Ha dovuto costruirselo da sé questo senso di giustizia (nelle strade della Maranella, negli istituti di educazione), e l’ha fatto male. (…)
Lui e Accattone sono la stessa persona. Accattone naturalmente è portato ad un altro livello, al livello estetico di un “grave estetismo di morte” come dice il mio amico Pietro Citati ma in realtà Franco Citti e Accattone si assomigliano come due gocce d’acqua. (…)
Franco Citti è uno di quegli uomini che devono combattere contro il serpente grande. La sua enorme carica vitale lo costringe ad una lotta incessante contro se stesso, a un tipo di vita eccezionale, speciale, fuori dalla norma – che io fra l’altro comprendo benissimo. È la lotta contro questa carica vitale che coloro che devono combattere contro una carica vitale piccolissima condannano. I signori che passano le loro serate davanti alla televisione a vedere gli ambigui sorrisi perbene delle presentatrici o la barba ricattatrice di Padre Mariano, sono coloro che combattono contro una carica vitale poco più grande di un vermiciattolo ed è quindi per loro facile condannare chi perde ore e ore del suo giorno e della sua notte a combattere contro la dolce violenza della tentazione». (da Diario al registratore, a cura di Carlo di Carlo, maggio 1962).
Nato a Roma nel 1935, originario delle stesse borgate sottoproletarie che lo scrittore aveva narrato in Ragazzi di vita e Una vita violenta, Citti conobbe Pasolini all’inizio degli anni ’50, quando lo scrittore stava lavorando alla stesura del romanzo che doveva dargli la notorietà (Ragazzi di vita, appunto) e frequentava il fratello Sergio, da lui definito “lessico vivente romanesco”. Quando Pasolini esordì nel cinema, volle che Accattone, il giovane prosseneta condannato ad una casuale morte violenta, avesse il volto inquieto e sofferto di Franco Citti. Così il “non attore” divenne l’incarnazione stessa di un’umanità respinta ai margini della “Città di Dio”, che nonostante la degradazione in cui vive, conserva un’inattesa, paradossale, intatta innocenza. Citti non fu soltanto il volto e il corpo di un personaggio pasoliniano ma dimostrò una spontanea inclinazione a ruoli cinematografici che coincidevano con la sua identità senza filtri e senza maschere.
Diventò uno dei volti emblematici dell’intero cinema di Pasolini, incarnando figure inquietanti e maledette – l’ex ruffiano Carmine di Mamma Roma (1962), il cannibale di Porcile (1969), Ciappelletto de Il Decameron (1971) – apparizioni demoniache e magiche – un diavolo dei Racconti di Canterbury (1972), il demone orientale de Il Fiore delle Mille e una notte (1974) – ma diede anche il suo volto ad un memorabile, barbarico, disperato Edipo in Edipo Re (1967).
Ma il percorso di attore di Franco Citti non si è limitato al cinema di Pasolini. Ha recitato in teatro in Salomé (1963) per la regia di Carmelo Bene ed è stato uno dei volti più importanti anche del cinema del fratello Sergio, da Ostia (1970) a Storie scellerate (1973), da Casotto (1977) a Il minestrone (1981), da I magi randagi (1996) a Cartoni animati (1998).
La sua intensa fisicità e la sua anomala espressività, sofferta e perturbante, hanno segnato numerosi film d’autore dagli anni ’60 ai ’90, quali Dietro la facciata (1963) di Marcel Carné, Requiescant (1967) di Carlo Lizzani, Seduto alla sua destra (1968) di Valerio Zurlini, Il Padrino (1972) di Francis Ford Coppola, Colpita da improvviso benessere (1976) di Franco Giraldi, Todo modo (1976) di Elio Petri, La luna (1979) di Bernardo Bertolucci, Il segreto (1990) di Francesco Maselli e Il Padrino parte III (1990) di Coppola.