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“Frantumi” di Serena Barsottelli: il senso del peccato secolarizzato, o: l’autolesionismo per sfuggire all’Inferno

Creato il 28 gennaio 2016 da Alessiamocci

Per tutti i frantumi che ho perso.

Per tutti i frantumi che ho raccattato.

Per tutti i frantumi che non ho scansato.

Ho abituato il mio piede a camminare nudo, a passi svelti.

Su tutti i miei frantumi.

Ci sono libri che, una volta conclusi, ti fanno sentire vuota perché troppo ti sono entrati dentro – o tu sei entrata in loro – per potertene separare senza un lutto. Ti fanno sentire vuota come fossi faccia a faccia con una morte concepita come la parola “fine” di un racconto che non vorresti finisse. Vuota come un bambina che vuole un’altra fiaba della buonanotte anche se già sa che l’adombrerà di malinconia.

E questo nonostante pochi ma cruciali “nonostante”. Che riguardano il contenuto, non la forma. Anzi, è proprio perché la forma sa essere così evocativa che si reagisce al contenuto – come certi bambini che, mentre viene loro raccontata la fiaba della buonanotte, a incredulità completamente sospesa, interrompono e s’intromettono per opporsi alle trame che non vogliono vedere realizzate.

Avrei voluto, completamente immersa nella lettura, che i personaggi di Frantumi di Serena Barsottelli (Edizioni Cinquemarzo, 2015) appartenessero a un destino diverso.

Barsottelli sembra aver eletto la parola scritta a supplizio e panacea. Contemporaneamente. Grazie a essa compone momenti in cui s’immerge (e ci fa immergere) – come se da ragno tessesse una tela in cui intrappolarsi – per patire, e patendo scrive.

È patetica, ma nel senso etimologico del termine: eccita le passioni, le smuove. Da patetica sembra scrivere in conseguenza del suo com-patire e con l’intenzione di far com-patire. E ci riesce, con la prosa di cui si avvale, anch’essa modellata dai supplizi autoinflitti. (Non parlo del processo di narrazione dei supplizi vissuti dall’autrice, a me sconosciuti, ma del suo metterne in continuazione in atto.) Ci riesce molto bene.

Ho patito, nonostante i “nonostante”, con lei. Fino a quella “fine” difficile da digerire.

Ci sono diversi modi di creare una connessione tra noi stessi e la restante, sconosciuta e postulata, umanità. Barsottelli, come passerella, ha scelto la sofferenza. Ma non una qualsiasi.

I suoi personaggi sono degli afflitti. Perché e da che cosa non si sa, ma ho l’impressione che più di una persona – leggendo questa antologia – comprenderebbe i disagi che la cadenzano. Frantumi è una raccolta più che contemporanea nei temi, per quanto il contesto – il quando e il dove i racconti si svolgono – funga più che altro da fondale su cui stagliare i personaggi, da cui i personaggi emergono ma a cui danno le spalle.

C’è il disorientamento davanti a un morte (ossia a una fine, e meglio ancora a una finitezza) difficile da digerire; lo sgomento causato da una violenza che non si riesce a capire, e che risulta quindi gratuita e vana, lo scherzo di un Dio acrimonioso; il degradamento dell’animo mentre il corpo viene abbellito gelidamente, osservando ossequioso i parametri di una società considerata superficiale, spietata e fatale; la bruciante vittoria del mondo sui nostri sogni, un mondo con cui dobbiamo giustificarci e che non deve giustificarsi con noi; l’incapacità di esprimere il proprio amore, e di come ciò che chiamiamo amore somigli a una solipsistica ossessione, al gesto ultimo di un disperato; e via discorrendo di disagi la cui origine è più materia di un antropologo a venire.

Ma, soprattutto, sopra a ogni motivo e causa, antropologica e non, gli afflitti di Barsottelli sono afflitti. Delle loro vite è questo che all’autrice sembra interessare di più, erigendo il supplizio a fil rouge che tutti questi esseri umani colleghi. No man is an island, scrisse Donne. Barsottelli annulla la solitudine esistenziale dei mortali trovando loro questo in comune: il patire. No pain, no party, in un certo senso.

Quando non è il mondo – un mondo che è tedio annichilente quando va bene, e minaccia da cui fuggire quando va male – a renderli vittime, essi sembrano impegnati ad autoinfliggersi dolore, o perlomeno condannati (quanto autocondannati?) a percepire dell’esistenza il lato peggiore, quello che li esclude e tartassa, che li rende diversi e inabili. Sembrano – storpiando il titolo di un saggio di Goldhagen sulla presunta innata malvagità di alcuni nazistivolonterosi carnefici di loro stessi.

È su questo punto – su questa centralità della vittima ritratta nel suo essere vittima, che vittima permane (come certi ebrei di Maurensig, che assistono inerti al proprio squartamento, come gazzelle che non sfuggono all’attacco dei leoni, ma anzi lo osservano quasi affascinate), che a volte vittima si reifica, che cominciano a sorgere i miei “nonostante”, le mie perplessità, la mia diffidenza.

L’autolesionismo – prima mentale e poi fisico – ricorre in diversi capitoli dell’antologia. L’autrice stessa – zoomando in continuazione sulla sofferenza, divenendo più lirica quando questa si fa più acuta, dando poco spazio alla gioia (che si presenta solo come effimera, come rubata, sempre minacciata) e all’ironia (solo il fratello reietto, Cinismo, sopravvive) – aumenta la sensazione di stare morbosamente osservando, mentre si legge, quella fetta d’umanità che si nutre del proprio dolore, refrattaria a ogni salvezza, come se – anzi – avesse eletto il dolore a strumento di autopunizione sulla via della redenzione.

Ed è qui, quando la bellezza delle frasi di Barsottelli mi fa pensare alla redenzione, che i miei “nonostante” sbocciano pienamente.

Quest’antologia di afflitti che vengono feriti o si feriscono ha ben poco della bruttezza a cui spesso la sofferenza condanna. Anzi, al contrario, sembra sia proprio il patire a garantire loro la bellezza che li rende così affascinanti. Una salvezza, se non esistenziale, estetica. Se non etica, estetica.

Non parlo solo dei sembianti degli afflitti o del fascino con cui Barsottelli carica i loro gesti, e persino il fluire dei loro ragionamenti e patimenti. Parlo dell’antologia nel suo insieme, che è un buon esempio di come un’autrice possa doppiare la falsa dicotomia tra forma e contenuto rendendo una lo specchio dell’altro.

La bellezza di Frantumi sembra nutrirsi della sofferenza che mette in scena. I suoi afflitti, anziché essere persone imbruttite dal degrado (esteriore e interiore) di cui soffrono, vengono da questo quasi sublimati. Più il disagio li infanga, più loro risplendono. Come santi che si nutrano d’umiliazioni temporali per garantirsi una grazia spirituale.

In questo senso l’antologia – più che una critita patita – sembra narrativa d’intrattenimento. In un contorto, controintuitivo modo. Sembra escapismo. Da un Inferno reale, tutto terreno, a uno idealizzato.

Un Inferno alla Milton, così ben dipinto – così bello, nella sua atrocità, così meravigliosamente struggente – che vien voglia di viverlo. Per regnare lì anziché servire in questo mondo insensato, finito, imperfetto. Per essere diversi, una condanna che risulta benedizione quando lo si è rispetto a un’umanità che viene dipinta con tinte scure e sporche.

Viene voglia di viverci, tra questi reietti, per camminare tra afflitti che ricordano rose di vetro – splendenti, eleganti, fragili e che frantumandosi dischiuderanno tutta la propria bellezza. Per percorrere le loro agonie interiori, così ben ritmate da far pensare che – come alcuni dicono – l’arte sia figlia del dolore. Per far proprio il loro sembiante, “carico di autodistruzione e sensualità”, che tanto mi ha ricordato quelle sante penitenti che nei quadri secenteschi mostravano alle folle l’eros proprio delle vittime, quei San Sebastiano trafitti da frecce armonicamente disposte su un corpo scolpito perché desse il meglio di sé quando piegato dal dolore.

E ci riuscirono, le sante e San Sebastiano, a convincere che nel dolore vi sia un fascino, sorta di ricompensa terrena in attesa della Salvezza. E ci riesce Frantumi. Ma non è la fiaba della buonanotte che vorrei ascoltare. Non è il genere di consolazione con cui darei la buonanotte.

Frantumi contiene i seguenti racconti:

– “Empty”
– “Lo strumento della follia”
– “VIXI, VIDI, VENI”
– “Inferno”

Serena Barsottelli è nata a Viareggio nel 1985. Indagatrice della psiche umana, amante della poesia, interessata allo sviluppo della persona come a quello degli eventi storici e delle credenze sociali, dopo un controverso percorso interiore decide di pubblicare il proprio studio sulla potenzialità terapeutica della fiaba, VoraceMente (Edizioni Cinquemarzo, 2014). Nello stesso anno viene pubblicato il racconto “Chi è?”, destinato alle sale d’attesa dell’Ospedale Unico Versilia.

Il 2015 segna la consacrazione a poetessa, con la pubblicazione della prima silloge D’Amore, Morte e d’altri miti (Edizioni Cinquemarzo) e a narratrice, con la raccolta di racconti Frantumi (Edizioni Cinquemarzo).

Due i blog personali dell’autrice: Dicono che il mondo sia uno schifo ma io non ci credo (WordPress) e I diari di Ana (Tumblr).

Written by Serena Bertogliatti

 


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