C’è un racconto di Franz Kafka – forse non così famoso come “La metamorfosi” – che mi ha sempre colpito perché sembra proprio anticipare nello specifico il fenomeno della Body Art, e più in generale tutte le produzioni contemporanee. Può essere senz’altro letto come una metafora sul valore dell’arte e permette di avvicinare da una certa angolatura tutte le questioni che ho esposto più sopra. Si intitola “Ein Hungerknstler”, scritto nel 1922 e dedicato a un artista che usava il proprio corpo per una singolare performance, digiunare all’interno di una gabbia avendo solo un po’ di paglia come giaciglio. Sì, è giusto il termine ‘usava’ perché, come il narratore sottolinea proprio all’inizio del racconto, l’interesse verso il digiuno professionale era notevolmente dominuito nelle ultime decadi e quello che un tempo offriva lauti guadagni, se condotto come attività autonoma, ora era diventato impossibile. “Viviamo in un mondo diverso, oggi”.
L’etica dell’atto artistico – L’arte del digiuno, come tutte le arti, aveva le sue regole (almeno fino al 1922). Era il dovere di onorare le regole della sua professione che gli impediva di assumere, non visto, qualche boccone di cibo. Per garantire la veridicità delle azioni era necessaria la presenza attiva del pubblico (Marina Abramovic, tra gli altri, docet), di un pubblico di non iniziati: preferiti erano i bambini, i macellai, i giocatori di carte, ed altri, non specificati, che con torce puntate su di lui aspettavano di sorprenderlo a mangiare di nascosto di notte, tutto quell’armamentario umano che non sarebbe dispiaciuto a Gustave Courbet, cultore dell’ ‘occhio vergine’. Che la presenza di osservatori potesse stimolare la creatività era un fatto che anche Kafka non negava, portando il suo artista a cantare e a narrare della sua vita nomade per tenerli svegli e dimostrare loro di nuovo che egli non aveva cibo nella sua gabbia e che era capace di digiunare come nessuno di loro sarebbe mai stato capace. Indubbiamente l’unico vero e continuo osservatore era sempre e solo lui stesso, capace di osservarsi giorno e notte, ben consapevole che non era stato il semplice digiuno ad averlo portato a quella scheletrica magrezza. La verità, semplice e terribile, e di cui non faceva segreto (ma non veniva creduto!), era un’altra: nessuno poteva immaginarsi quanto fosse FACILE digiunare. Tuttavia andava a suo credito che, alla fine di ogni digiuno, egli non usciva mai di sua spontanea volontà dalla gabbia.
La diversità dell’artista – Di fronte al dilemma dell’artista tra essere e divenire, senz’altro Kafka sceglie l’essere, che comporta affrontare il problema esistenziale di dare un’interpretazione, di conferire un significato a ciò che facciamo, anche se per essere artisti occorre saper fare (o al limite, vedere o pensare) qualcosa che si differenzi sostanzialmente da quello che anche l’uomo comune potrebbe concepire. Non può qui non venir in mente Charles Baudelaire, colui che, nel dilemma, ha scelto il divenire. Per lui l’artista – e non solo la sua opera – è la provocazione vivente verso i borghesi, per il quale la bellezza è ormai decaduta per lasciar spazio allo scheletro, alla mostruosità. Ora il significato è un gioco, una performance, e il suo “hypocrite lecteur, mon frère, mon semblable” può essere interpretato come se il lettore fosse chiamato dentro l’opera d’arte, come se potesse leggere dal punto di vista dell’artista. In Kafka, tuttavia, l’artista, pur usando se stesso, combatte per essere tale, non arriva all’autoironia, e nonostante tutti i suoi sforzi, alla fine risulta sempre incompreso. Ma per quale motivo, nonostante tutto il suo impegno di farsi capire? Perché l’ambiguità è connaturata nel fare arte, e in quanto tale, egli non può dire nulla, ma soltanto cercare di andare avanti. Così l’artista digiunatore si distingue per una resistenza fuori del normale e anche se per lui il momento più felice era quando all’arrivo di ogni nuova alba un’enorme prima colazione veniva offerta al pubblico a sue spese, tuttavia, per altre ragioni, egli si giudicava sempre inadeguato.
Durata della performance per essere credibili – I giorni della performance erano stati stabiliti in 40, perché dopo quella durata il pubblico perdeva interesse: cosa c’era in effetti da scoprire in un’opera in cui c’era poco da capire? Si comprende bene perché Christo e Jeanne Claude abbiano lasciato le loro installazioni in visione per un numero di giorni ancora inferiore – 14 – e poi le abbiano fatte demolire. Alla fine dei 40 giorni iniziava un’altra, non meno artistica, performance, non pensata dall’artista e che sarebbe piaciuta a Federico Fellini: la gabbia veniva aperta e, alla presenza di molti spettatori, la banda iniziava a suonare, due dottori lo visitavano, i risultati venivano annunciati da un megafono e due avvenenti giovani donne lo accompagnavano a un piccolo tavolo su cui era sparso un modesto pasto per convalescenti. Si brindava anche in suo onore e poi tutti se ne andavano soddisfatti, tranne l’artista, sempre lui, come sempre, insoddisfatto.
Ricatto dell’impresario (gallerista o critico) – Entra a questo punto nel racconto il rapporto ambiguo che intercorre tra l’artista e il suo impresario, il quale se da una parte apprezzava l’alta ambizione, la buona volontà e la grande abnegazione, alla fine gli tirava sempre un colpo mancino: alle reiterate pretese dell’artista di voler andare oltre i 40 giorni di digiuno, l’impresario tirava fuori all’improvviso alcune foto messe in vendita al pubblico che mostravano l’artista nel suo quarantesimo giorno di digiuno steso a letto quasi morto per la stanchezza. L’artista conosceva molto bene questa procedura dell’impresario e alla fine non faceva che ritornare sulla sua paglia con un grugnito.
L’arte come moda – Una cosa di cui l’artista non era mai riuscito a capacitarsi era perché doveva terminare il digiuno proprio allora che si trovava nella migliore forma per digiunare, in una performance al di là di ogni possibile immaginazione umana. Ma alla fine si rassegnava al fatto che in fondo il pubblico non lo avrebbe compreso e l’impresario, che cercava sempre di dare la sua versione dei fatti, pure lui sbagliava direzione interpretativa. Possiamo ben capire quanto combattere contro la mancanza di comprensione, contro un intero mondo di non comprensione, sia impossibile. Però ancora un senso in tutto questo c’era, perché l’interesse non mancava. Quando poi questo venne meno, quasi dalla mattina alla sera, non si riuscì a capire il perché. Il pubblico un bel giorno lo abbandonò in cerca di altre attrazioni. Kafka, con sottile intuito, vede come l’arte, quando intesa come moda, anche se con lievi variazioni, sarebbe ritornata di nuovo ad imporsi; ma se questa era una considerazione storica, sapeva altrettanto bene che per chi viveva nel presente tutto ciò non arrecava alcun conforto. Come adattarsi al cambiamento?
Importanza delle aspettative del pubblico – L’artista avrebbe potuto scegliere un’altra professione ma era troppo fanaticamente devoto al digiuno, e così dopo aver abbandonato l’impresario (proprio colui che, ancorandolo a una istituzione, sebbene fittizia, gli aveva permesso di essere chiamato ‘artista’) si fa assumere da un grande circo, senza leggere il contratto, dicendo che avrebbe digiunato come non aveva mai fatto in precedenza, dimenticando che era intervenuto un cambiamento nell’opinione pubblica. Quale pubblico poteva comprendere un’arte non più di moda? Solo raramente qualche padre di famiglia, che da giovane aveva assistito alle performances, poteva spiegare ai suoi piccoli il fenomeno, e abbastanza sorprendentemente essi, pur non essendo stati preparati né dentro né fuori la scuola, mostravano nella brillantezza dei loro attenti occhi che nuovi e migliori tempi sarebbero giunti.
Si può spiegare l’arte della performance? – Per la Abramovic, che insegna Performing Art in Germania, questo è possibile. Ma saper digiunare ad arte, per Kafka, è una tendenza istintiva, esistenziale, legata a un talento personale e se non si possiede il sentimento verso questo tipo di performance, non possono neppure essere create le condizioni per la sua comprensione. Così non fu casuale se l’artista iniziò a digiunare senza più alcun controllo, neppure da parte di se stesso, fino a scomparire in mezzo alla paglia. E quando qualcuno si ricordò di lui, si arrivò all’atto finale della sua performance.
- Stai ancora digiunando?
- Perdonatemi, tutti – sussurrò – avrei voluto sempre essere ammirato per il mio digiunare.
- Lo abbiamo ammirato.
- Ma non avreste dovuto ammirarlo.
- Bene, allora non lo ammiriamo. Ma perché non lo dovremmo?
- Perché io DEVO digiunare, non posso fare altrimenti.
- Che tipo che sei! E perché non puoi fare diversamente?
- Perché non ho potuto trovare il cibo che mi piace; se l’avessi trovato, credimi, non avrei fatto tutta questa confusione e mi sarei ingozzato come te o come qualsiasi altro.
Furono le sue ultime parole ma nei suoi occhi opachi rimase la ferma benché non più orgogliosa convinzione che stesse ancora continuando a digiunare.
L’artista del digiuno non ha avuto bisogno di scuole, ma di un contesto sì, come di un pubblico, anche se sapeva valutare i risultati da solo. Si era imposto un imperativo, una sfida: superare se stesso, visto che rifiutava quello che gli avrebbe permesso di vivere come un uomo normale: l’adattamento. E nel caso esistesse una fondamentale differenza su come la performance dell’artista del digiuno sarebbe stata utilizzata oggi rispetto al 1922, dovrebbe consistere in questo: se allora i resti dell’artista furono gettati via insieme alla paglia per far posto, nella gabbia, ad una fiera piena di vitalità, ora quei resti avrebbero costituito un’opera d’arte in sè, ancora più piazzabile sul mercato perché, insieme all’opera, si sarebbe potuto comprare anche l’artista.
Loretta Vandi
il racconto citato si può trovare qui: La metamorfosi e tutti i racconti pubblicati in vita