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Il signor Fiala è, per l'appunto, un piccolo borghese. Un dipendente del fu impero austro-ungarico, una delle realtà più sbalorditive della cultura europea moderna. Aveva un ruolo di secondo piano, di cui andava fiero. Era un dipendente, un laconico custode all'Intendenza di Finanza: un impiegato di secondo ordine, ma drogato nella sua fierezza dai colleghi e dall'amore della moglie. Nella sua vita ci sono due nei: Klarinka, l'avida e stregonesca sorella della moglie, e Franzl, un figlio grande e grosso, però un po' scemo e senz'altro malato, al quale nessuno sembra voler davvero bene. Fiala ha stipulato un'assicurazione sulla vita con un suo ex collega e superiore, Schlesinger, che dovrebbe garantire ai suoi cari un minimo di sussistenza dopo la sua morte. A patto, però, che compia il sessantacinquesimo anno di età.
La storia di questo morire è anche la Storia dell'essere Austriaco, viennese fino in fondo, e della brama di cose, di ricchezze, dell'avere. In poche altre culture come in quella mitteleuropea è possibile riscontrare un tale annodarsi di orgoglio nazionalista e di avidità (penso soprattutto al mio amatissimo Autodafé di Canetti, con i due personaggi chiave di Therese e di Fischerle). Franz Werfel ha bilanciato i caratteri con precisione autorevole, puntando insieme all'essenziale e alla completezza di una tesi sulla vita dopo il fu mondo asburgico: è una parabola di ciò che ne resta e di ciò che è totalmente scomparso a grande distanza di tempo, ma non sufficiente perché questo passaggio acquisti nuovi significati. In Morte di un piccolo borghese, si indaga su un totale smarrimento: prova ne sia la becera Klara, l'infame collettrice di resti, ladra - più che mendicante - di briciole, la sordida parassita dei suoi datori di lavoro, incapace di riconoscere il valore di ciò che prende, accecata dalla perfidia e dall'ingordigia di illusioni ottiche. La donna è, in maniera esemplare, l'esatto controcanto dei due severi coniugi Fiala.
Lui, con il suo orgoglio di dipendente modello di un sistema valoriale laico e ortodosso, impermeabile alle fughe irrazionali. Caparbio, Fiala raccoglie forze ed energie per accumulare quel tanto di vita che basta ad avere un futuro. La moglie, che sa selezionare dal passato i resti di un'antica nobiltà d'animo e di forme per farne un dono, per ritagliare ancora un momento di festa, è l'immagine di un focolare patrio e domestico, un luogo nel quale sentirsi a casa, sia pure fuori tempo. L'amore che i due coniugi si dimostrano, pur senza le svenevolezze di un romanticismo fuori luogo, contrasta con l'incapacità di prendere e di avere, con i miraggi di un futuro assicurato da un impero che si è convertito in mero potere economico.
Non ci si faccia ingannare dai nomi: il piccolo borghese di Werfel non è il borghese piccolo piccolo, di Monicelli, quel Sordi drammatico e piegato dalla modernità, perché diverso è il ruolo della borghesia. L'austero Fiala non è il dinoccolato e cameratesco cittadino, il guardingo impiegato teso a contrastare le logiche di un potere sovrano con i sotterfugi massonici o pseudomassonici del piccolo o grande comune italiano: il vigile Fiala è parte integrante di un mondo insieme verticista e dilagante, esponente di impero dal tenore militare prima ancora che di una sensibilità estenenuante di sapore straussiano. È il potere che gli dà un ruolo ed è all'ombra dei poteri che vive e muore. Per questo è un piccolo borghese, ma un uomo capace di preservare e difendere il suo asburgico eroismo.
Qui, più che altrove, viene voglia di indagare sulla presenza di Mahler nell'opera di Franz Werfel, a parte la moglie che fu dell'uno e dell'altro. Ma questa è una storia diversa, su cui forse tornerò, appena ne saprò qualcosa in più.
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