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Frase celebre (la terza). Zela, 47 a.C.

Da Nubifragi82 @nubifragi

Tirone era un ottimo scriba. Schiavo di origine greca, aveva potuto migliorare la propria triste condizione esistenziale grazie all’abilità nello scrivere. Rapido e preciso, poteva stendere frasi e parole su ogni supporto, legno, cera o papiro che fosse. Per questo motivo il senato romano lo aveva inviato al seguito di Giulio Cesare nella missione in Anatolia. Compito di Tirone era inviare alla capitale frequenti dispacci. Ora, sebbene questo incarico fosse di grande prestigio e avrebbe potuto, chissà, portare pure al suo affrancamento dalla condizione di schiavitù, Tirone non ne fu entusiasta. Non era infatti persona di fegato, amava la pace delle biblioteche e le uniche battaglie che si concedeva di combattere erano quelle contro le bottiglie di vino.

Arrivò il giorno della battaglia. L’esercito romano si sarebbe scontrato contro quello di Farnace II, re del Ponto. Tirone per tutto il giorno precedente tremò di paura. Come avrebbe fatto a seguire la battaglia da vicino, lui che rabbrividiva al solo pensiero di una daga? Chi avrebbe spiegato a quei barbari asiatici che lui era solamente uno scribacchino e perciò non doveva avere la testa mozza? No, non ce la avrebbe fatta. Cercò l’ardore mancante in un forte vinello di Cappadocia. Ah, aspro e duro, quello che ci voleva, pensò. E non elemosinò. Sentiva il coraggio nascere nello stomaco e propagarsi negli arti, nella testa, perfino nell’animo. Si, si sentiva un leone, quasi avrebbe preso a pugni quel faccia da scemo d’un oste…

Ma se il vino tanto aveva potuto con l’animo, poco poté con il fisico e il nerboruto oste, abituato a ben altri aggressori, lo stese in due e quattro otto, lasciandolo stordito e ubriaco nello sgabuzzino a ripensare alle sue malefatte.

E battaglia fu. E senza Tirone. Quando si riprese dalla colossale sbornia mista a botte da osteria, uscì per la strada del paese e capì che tutto era finito. Feriti, cadaveri, sangue, lamenti, armi dismesse, soldati esausti ovunque. Non si capiva nemmeno se la battaglia fosse stata vinta o persa. Tirone non osava chiedere, chiunque l’avrebbe potuto accusare di viltà e giustiziarlo seduta stante. Il messaggero, impaziente, chiese il dispaccio per correre verso il porto più vicino. Se il povero Tirone non avesse riferito a breve della battaglia, la sua testa sarebbe pari modo finita sulla picca di un lanciere. Doveva sapere e in fretta. Si avvicinò ad un gruppo di soldati che giocavano ai dadi. Pensò di poter recepire qualcosa dalle loro parole, ma non parlavano né il greco né il latino. Maledizione a Roma e a quella babele di popoli che era diventata! Il messaggero chiamò ancora. Iniziava ad indispettirsi.

Poi fu silenzio. Il gruppo di giocatori si alzò in fretta e gridò: “Ave Cesare!” Era proprio lui. Si fece largo tra i soldati, prese in mano i dadi e li lanciò contro la barriera. Era un tiro eccezionale, assolutamente imbattibile. Cesare allora, con fare teatrale, alzò lo sguardo al cielo e pronunciò una frase a riguardo di quel tiro fortunato che Tirone non si lasciò sfuggire. E tutti i superstiti della battaglia esultarono. Il messaggero, intanto, scese da cavallo e si rivolse verso Tirone con fare minaccioso. Alquanto adirato, lo prese per il bavero, ma prima ancora che potesse accusarlo, Tirone gli mise davanti al viso un foglio scarabocchiato in fretta e furia con impresse le parole che Cesare aveva appena pronunciato:

Veni, vidi, vici!

(venni, vidi, vinsi)



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