“Nel mezzo del cammin di nostra vita ci ritrovammo” in una strada buia. Nonostante la via non fosse smarrita, ma semplicemente non ben illuminata, riuscimmo comunque a leggere alla fine della strada le indicazioni che avrebbero segnato lo sviluppo del nostro percorso. Rimanemmo stupiti dalle caratteristiche dei cartelli che si presentavano davanti a noi. Erano tutti rivolti verso la stessa direzione: sinistra. E su ognuno di essi vi era il titolo di un film: “2046”, “Closer”, “Anything else”, “Lost in translation”, “Paycheck”, “Gli intoccabili”, “Ritorno al futuro”, “Vi presento Joe Black”, “L’avvocato del diavolo”, “Pulp fiction”, “Insieme a Parigi”.
Incuriositi e affascinati, svoltammo così a sinistra.
La prima immagine che si presentò davanti a noi era il binario di una stazione ferroviaria, in realtà l’unico binario di quella stazione. All’inizio del binario, la scritta: “2046, partenza ore 20.30”. Erano le 20.29.
Si vedeva in lontananza, verso la fine del binario, in corrispondenza della prima carrozza del treno, un uomo, non molto alto, magro, capelli e occhi neri, baffi, occhi a mandorla. In realtà somigliava proprio a Chow, il protagonista principale del film “2046”. Sempre più incuriositi decidemmo di avvicinarci a lui ed arrivati quasi ad un metro da lui, non avevamo più dubbi: era Chow. Non credevamo ai nostri occhi. Avevamo da sempre desiderato conoscerlo. Perché Chow, uno scrittore che aveva deciso di fare un viaggio nel tempo per rincorrere l’unica donna che avesse mai amato, era per noi l’esempio di una delle manifestazioni più vere e romantiche dell’amore. Rappresentava quell’amore ormai smarrito, diventato un dolce, vitale e doloroso ricordo, incastrato tra il desiderio insopprimibile di riconquistare quanto perduto e l’inevitabile paura di farlo. E noi volevamo viaggiare con lui, percorrere con lui questi ricordi.
Troppo tardi. Sentimmo il fischio che segna la partenza del treno. Chow salì nella sua carrozza e le porte del treno si chiusero prima che noi riuscissimo a salire.
Delusi ma allo stesso contenti di quella breve visione, ricordammo una delle frasi più belle di Chow: “Nella vita il vero amore si può mancare se lo si incontra troppo presto o troppo tardi. In un’altra epoca, in un altro luogo, la nostra vita sarebbe stata diversa. Anch’io avrei preferito un lieto fine, ma non sapevo come scriverlo. Qualche anno fa ce l’avevo un bel finale tra le mani, ma me lo sono lasciato scappare”.
Così pensando ancora a quel treno perso, a Chow, all’amore, al lieto fine, continuammo a camminare. Uscimmo dalla stazione e ci trovammo davanti ad un palazzo. Entrammo e al piano terra, davanti a noi c’era un unico portone, aperto. Sul citofono di quel portone, una scritta: “Closer, studio fotografico”. Pensammo: “Ok, se stiamo cominciando a capirci qualcosa, con un po’ di fortuna entriamo e ci ritroviamo dentro Jude Law o Julia Roberts”, due degli attori del film e soprattutto i due protagonisti dell’indimenticabile scena ambientata nello studio fotografico.
Avevamo sempre amato il film “Closer”. Una storia che lega quattro persone, due uomini e due donne, in un vortice di sentimenti, emozioni, verità. Una storia indimenticabile, perché sincera. Incastrando le vite dei quattro protagonisti, parla con schiettezza e senza smielati e ripetitivi sentimentalismi della reale complessità dei sentimenti e di come possano essere prese scelte sbagliate, ma sentite.
Così entrammo nell’appartamento, ci ritrovammo esattamente nello studio fotografico del film ed in fondo alla stanza c’era proprio lui, Jude Law o meglio Dan. Dopo esserci presentati, cominciammo a parlare con lui. Parlammo per più di mezz’ora, di tutto quello di cui avevamo da sempre voluto parlare con lui, della finzione della vita e della realtà del cinema, delle relazioni e di come non possa esistere una definizione di amore. Finita la conversazione, dopo aver salutato Dan, ancora increduli di avere avuto la possibilità di conoscerlo, abbandonammo l’appartamento.
Usciti dal palazzo, ci ritrovammo in un lunghissimo viale alberato, circondati dal verde, dalla natura. Non avevamo dubbi, eravamo sicuramente in un parco. Proseguimmo lungo quel viale e accanto ad un albero, trovammo la scritta: “Anything else, Centralpark”. Non ci potevamo credere, forse avremmo avuto finalmente la possibilità di conoscere Woody Allen o meglio Dobel. Pensammo: “sai che delusione se ora ci capita Christina Ricci”.
E, invece, seduto su una panchina, c’era lui. Impossibile non riconoscerlo, seduto sull’estremità della panchina, con quella sua postura rilassata, impacciata ed elegante, guardava dai suoi inconfondibili occhiali neri, con i suoi occhi acuti e riflessivi, il meraviglioso lago che si stendeva di fronte a lui. Senza esitare, nonostante l’emozione, ci avvicinammo. E in un solo attimo, dopo esserci presentati, fummo travolti dal fiume di parole e di battute che contraddistinguono il suo modo di essere, di parlare, di gesticolare. Ciò che ci stupì veramente fu, però, la sua capacità di ascoltare. E così riuscimmo a confidarci con lui, a parlare della nostra vita, dei nostri progetti, dei nostri sogni, dei nostri problemi. E lui rispondeva sempre con il suo umorismo, ma soprattutto con una grande sensibilità e sincerità. Non dimenticheremo mai come si chiuse quella conversazione, con uno dei suoi classici racconti, divertenti, acuti, apparentemente insensati ed invece visibilmente profondi. Prima di andarsene, ci disse: “Una volta ero in un taxi, era parecchi anni fa, stavo cianciando con il tassista a proposito di queste cose di cui blateravi tu poco fa: la vita, la morte, il vuoto universo, il significato dell’esistenza, l’umana sofferenza. E il tassista mi disse: “Guardi, è come tutto il resto”. Riflettici”.
E così dopo essere usciti da Central Park, pensando ancora alla frase del tassista, ci ritrovammo immersi in una realtà mai vissuta prima: eravamo circondati da immensi grattacieli, da una moltitudine di luci, di cartelloni colorati con incomprensibili scritte in giapponese e di persone che attraversavano velocemente e freneticamente la strada in cui eravamo finiti. Notammo subito, davanti a noi, un uomo, molto alto, che, inevitabilmente, si distingueva da tutti gli altri: capelli brizzolati, occhi azzurri, percorreva la via con andatura elegante e disinvolta. Con lui non avevamo bisogno di una scritta: era sicuramente Bill Murray, o meglio Bob Harris di “Lost in translation”. Anche questo un film che ha lasciato dentro di noi un segno indelebile, per la delicatezza e la sensibilità con cui riesce a raccontare il sentimento genuino che unisce i due protagonisti della storia. Avevamo da sempre desiderato parlare con Bob e soprattutto chiedergli cosa avesse sussurrato a Charlotte nella dolce e malinconica scena finale del film. Così dopo esserci avvicinati a lui, senza aspettare troppo, gli facemmo subito questa domanda.
E poi….
E poi scattarono le 07.00, suonò la sveglia e ci svegliammo. “NO, non è possibile, proprio quando stava per rispondere”.
E così, delusi dalla fine del sogno, ripensammo a tutti i film che ci eravamo persi.
C’era ancora “Paycheck” e Michael Jennings, a lui avremmo chiesto cosa si prova a perdere i propri ricordi e come si riesce a lottare per ritrovarli. E poi c’era “Gli intoccabili”, quando ci ricapita di conoscere Al Capone (Robert De Niro) ed Eliot Ness (Kevin Costner)? Per non parlare di “Vi presento Joe Black”, chi di noi non desidera incontrare “la morte” in queste “vesti”? E poi avremmo voluto ballare con Mia Wallace, farci un giro nella delorean di Michael J. Fox, conoscere John Milton (Al Pacino) e magari chiedergli di concederci un ballo, provare a scrivere una sceneggiatura con Richard Benson (William Holden).
Non ci resta che guardare almeno i film.
Buona visione a noi, ma soprattutto a tutti voi!
“2046″
“Closer”
“Anything else”
“Lost in translation”
“Paycheck”
“Gli intoccabili”
“Vi presento Joe Black”
“Pulp fiction”
“Insieme a Parigi”
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