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Freedom Writers di Richard LaGravenese. A toast for change
Creato il 06 febbraio 2013 da SpaceoddityLa scuola, vi si dice, è uguale alla città: è corrotta, è brutale, è lontana da qualsiasi possibilità di ascolto degli adolescenti, non ci sono reti o barriere, la scuola non è che un'emanazione di ciò che i nostri nemici esigono da noi, senza nessun motivo. Tutto il mondo è in guerra: devi combattere e, se capitano, prendere le vittorie quando vengono, senza cercare di capir altro. I ragazzi di Freedom Writers subiscono la loro vita, cercano di affrontarla, ma questa sfugge sempre al tentativo di ghermirla e alla loro rabbia. Ciò che rende la loro esperienza terrificante è che loro non sono iscritti in una scuola di periferia o di frontiera, non sono un'eccezione in nulla, quanto al loro vissuto, se non per il fatto di essere protagonisti della loro classe: stanziano in una normale località di un organismo decentrato e, come accade a ogni delocalizzazione quando perde l'orientamento, vivono un'avaria di sistema.
Freedom Writers è tratto da una storia vera e prende spunto dall'omonimo libro scritto dalla professoressa Erin Gruwell con i suoi alunni. La donna (interpretata dalla splendida Hilary Swank) porta i ragazzi, adolescenti già vissuti, refrattari (se non impermeabili) alla complessità di storie altrui, a scrivere la propria, come sanno e come possono. D'altra parte, quando ciò accade, la docente è già entrata nelle loro vite: è così che tutte queste testimonianze raccolte in classe sono racconti corali, che mettono la figura della Gruwell, da loro chiamata Miss G., al centro di un'esperienza esistenziale nuova e rivoluzionaria. Non per i suoi metodi, ché la professoressa spesso arranca e viene presa in giro per i suoi tentativi maldestri di avvicinarsi alla rabbia di questi ragazzi; bensì, e ciò che conta di più, per il fatto che Erin rappresenta per loro il cambiamento. Neanche la speranza (la donna sa benissimo che nella violentissima California dove vivono ogni ora fuori è un rischio per questi giovani): dico piuttosto la libertà del cambiamento.
Ma Erin Gruwell si lascia assorbire dal suo lavoro, ne fa una missione, perdendo ciò che aveva fuori dalla scuola. Prima osteggiata e poi affiancata dal padre (Scott Glenn), la donna finisce con l'ergersi a maestra di vita, a disilludere le legittime attese del marito Scott (Patrick Dempsey), nonché i metodi e le indicazioni della direttrice Margaret Campbell (Imelda Staunton), creando disordini nel suo liceo. Il punto è che Miss G. prende alla lettera l'insegnamento passe-partout che riceve a mo' di vademecum: Success follows experience. Solo che l'experience che capisce la protagonista di Freedom writers è di carattere esistenziale non riguarda la professionalità del docente. La professoressa Campbell, ritratta con una fisionomia forse più antipatica del dovuto, conduce la sua battaglia nel solco di un anodino buon senso e di un'esperienza didattica e lavorativa che si può anche condividere in astratto (splendido programma politico). La forza di Erin Gruwell sta nel ragionare e nel mettersi in gioco nella vita reale di questi ragazzi.
L'esperienza di Miss G. è, dunque, per forza di cose, parziale. Io credo però che sia questa l'essenza di ogni vera esperienza, il compromettersi con le cose e soprattutto con le persone, la consapevolezza di dover ricominciare daccapo a ogni nuova persona, di dover ogni volta aderire al monto e non a un modello o a una guida. Sono due approcci quasi antitetici in termini educativi, perché diversi sono gli sguardi al problema: Erin Gruwell osa e mette in gioco anche quello che non le appartiene fino in fondo, quelle porzioni della vita che destiniamo ad altri, e lo fa senza guardare all'architettura del sistema dell'istruzione, alla routine, al progetto statale che pure è indispensabile per dare un senso all'azione educativa nel suo insieme e nella sua filosofia più profonda. Margaret Campbell, per parte sua, non riesce a vedere ciò che di vero e di unico c'è in questi ragazzi; ma i ragazzi - per quel po' che loro compete - vanno a scuola per riconoscersi ed essere riconosciuti, loro.
Che poi sia un metodo a prevalere sull'altro è implicito nella struttura narrativa del film ed è, come si suol dire, ormai storia. In medio stat virtus è considerazione di comodo generica quanto altre mai e perciò inopportuna: trovo più concreto ed efficace l'oraziano est modus in rebus, "c'è una misura nelle cose", che appunto trova nelle cose stesse - e non altrove - la misura giusta. Una misura che Erin deve ancora trovare, nel film, ma per la quale lavora a costo di ogni arbitrio, s'intende, e senza mai venir meno a ciò che vuol dire calarsi nella realtà.
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