Per il suo penultimo film, Frenzy, Hitchcock ritornò a girare nella natia Londra, ad oltre vent’anni da Paura in palcoscenico. Una Londra piena di colori, suoni, rumori, odori, con al centro l’ancora mercato di Covent Garden, che fa da contrasto con lo sfondo cupo della serialità omicida. A rafforzare questo contrasto, la vivacità delle musiche composte da Ron Goodwin e l’associazione del thriller con il cibo e la gastronomia. Hitchcock scelse di lavorare con attori provenienti dai teatri londinesi, meno fotogenici dei divi di Hollywood, ma più attenti al particolare. Scelta rivelatasi opportuna per un film da considerarsi probabilmente il più corale dell’intera filmografia del mago del brivido. Ripresa e montaggio mostrano la straordinaria freschezza dell’anziano maestro, facendo del film un esempio panoramico della maniera hitchcockiana, fatta di immedesimazione del mezzo e nel mezzo (del mezzo filmico nella scena e del soggetto, autore o spettatore, nel mezzo filmico), di tempi interiori insostenibili per chiunque, di leggerezza di fronte all’abisso. La sceneggiatura, firmata da Anthony Schaffer, si rifa al romanzo Goodbye Piccadilly di Arthur La Bern.
Presentato fuori concorso a Cannes nel 1972 e accolto favorevolmente da pubblico e critica, pur con qualche polemica per la crudezza di alcune scene, il film è, da una parte, un’immersione nei luoghi della memoria del regista ormai ultrasettantenne. Dall’altra, con Frenzy, Hitchcock porta agli estremi le due caratteristiche principali della sua magistrale filmografia: la capacità di creare suspense e il permeante senso dell’umorismo. Ma più che la ricerca di un equilibrio tra brivido e ironia, in Frenzy c’è il tentativo riuscito di compiere una simbiosi tra di essi, operazione replicata con altrettanto successo nel successivo e ultimo Complotto di famiglia. In fin dei conti, sta proprio qui il nocciolo del film, nel dimostrare quanto sia labile il confine tra bene e male, innocenza e colpevolezza, ragione e delirio (Frenzy, in inglese).