Riporto un lettura, uscita per “il primo amore”, di “Millimetri”, seconda raccolta di Milo De Angelis, ripubblicata dal Saggiatore. La pagina del “primo amore” è questa; info sulla ristampa qui.
In Millimetri De Angelis scrive poesie-limite, accentuate da una tensione vorticosa e perentoria. Fin dai primissimi versi, “I bastoni / hanno frantumato l’ultimo secchio / e ora il villaggio fa / silenzio / nella corte marziale”, si confermò a suo tempo l’impressione di avere di fronte una poesia che aveva tolto di mezzo sia l’esperienza avanguardistica che la nascente deriva orfica; così, almeno, per Giorgio Manacorda. E così pare adesso essere confermato dalla postfazione a questa ristampa, scritta a quattro mani da Aldo Nove e Giuseppe Genna e preceduta da una preziosa riproduzione anastatica di nove poesie sotto la dicitura Di sua mano.
In Millimetri De Angelis sembra essere ancora più lontano anche dall’esperienza lombarda, che pure lo aveva aiutato a inquadrare e collocare drammaticamente, in un contesto comunque arduo e analogico, le sue prime Somiglianze, raccolta d’esordio del 1976. Con Millimetri, parafrasando la postfazione, sembra che si spalanchi al lettore un mondo incomprensibile di cui si ha comunque memoria, si è sicuri di essere di fronte al cosmico e all’interiore presenti nello stesso tempo. E non si fatica a dare ragione a questo tentativo di lettura quando appaiono agli occhi versi come questi: “Noi portiamo alla terrestre / uno sposo, sempre nello stesso / cuore: con le ossa della / grande madre graffiata / nei campi di carbonella, / tra una / corsia e l’altra, / braccia, uomini / bianchi come stoffe chiodate”.
In queste pagine De Angelis ha mostrato come il nucleo della propria espressione fosse il frutto di una “sorveglianza attiva” (espressione di Eraldo Affinati, che ha curato l’opera di De Angelis per Mondadori) di una “sintonia con il mondo”, un mondo che in definitiva rifiutava di essere conosciuto. De Angelis si è come inabissato nei suoi traumi per riportarli alla luce senza alcuna consolazione, senza alcun compiacimento estetico e verso un limite verbale, forse personale, quasi intollerabile.
Se in Somiglianze questa tensione riusciva a risolversi in personaggi in relazione fra loro (si pensi a Due nelle forze, in cui il rapporto tra un lui e una lei non meglio precisati si risolve nel grottesco) in Millimetri si è arrivati a una poesia che oblitera irrimediabilmente le ragioni della scrittura e riemerge svanendo nel risultato, nel referto poetico. Forse in una sola occasione il lettore ha una possibilità minima di immedesimazione con il testo, quando si ritrova a leggere: “In noi giungerà l’universo / quel silenzio frontale dove eravamo / già stati”. Quel noi permette di sospendere per pochissimi versi l’intero cortocircuito comunicativo che isola e regge Millimetri.
Poesia orfica? Ermetica? Non proprio. Se Montale ebbe modo di attribuire l’oscurità dei suoi versi a quello che definiva “eccesso di confidenza con la materia trattata”, con i lacerti autobiografici da cui scaturivano i suoi versi, in Millimetri non si ha un solo verso che porti in questa direzione. In estrema sintesi: da un lato ci sono gli oggetti, la realtà, “questo cortile / fedele ai suoi metri: lo stesso albero / della porta / che è perenne per chi la scorge / eppure è aria, soltanto aria”, che sembrano preludere a una agnizione, una scoperta, “una / calma tropicale, una vigilia”, ma subito arriva lo scacco a sigillare la possibile scoperta, e arriva sotto forma di paradosso, di koan: “La saliva, per la seconda volta,/ risucchia se stessa; / beve”. Ed ecco che la realtà si ritrae, si nega, e gli strumenti di osservazione (gli occhi) rimangono a fissare la propria inutilità di fronte al tribunale del reale: “In questa / giuria, voi, travi e /pupille, rideste” (forse una reminiscenza neotestamentaria). Sono queste le ultime parole che chiudono la raccolta, e appartengono a uno dei testi più lunghi e tesi, Fanghilia e forti gatti, che De Angelis abbia forse scritto finora.
Da questa considerazione di indicibilità arriva il titolo: millimetri. Come se fosse possibile penetrare l’oggetto dell’osservazione solo per uno spazio ridottissimo, rastremato, dolente. E bisogna ricordare che durante gli anni della stesura di questa raccolta il cosiddetto nichilismo novecentesco era già stato chiuso in una gabbia di ironia da Montale, dissolto dalla ricerca linguistica di Zanzotto, che era riuscito a trasformare in paesaggio verbale, abitabile, la propria ricerca; De Angelis imboccava una strada piuttosto solitaria che avrebbe finito di attraversare solo nel 1999, alla fine del secolo e del millennio, con le prime aperture affatto consolatorie di Biografia sommaria.
Queste note sono appena una delle possibili letture che Millimetri tollera. Libro sottile e chiuso ad ogni sbocco, privo anche di una minima figura femminile che rovesci qualcosa, scardini o, al contrario, consoli. Se ci sono fantasmi femminili non si incaricano di alcuna sfida, non esemplificano, ma si limitano ad esserci con nomi tremendi, sfingei: la disadorna, la viva, una saracena, la terrestre.
Nomi, tentativi di nominazione, incastonati in versi di una tensione sulfurea, che continuano ad agire nel lettore e che a malapena possono essere commentati. In questo senso si giustifica la ristampa da parte del Saggiatore. Non proprio la necessità di un ricordo, piuttosto il desiderio di rilettura, di riapertura dei giochi.
(Poi, Montale: ho idea che oltre a Luzi e Fortini anche Montale abbia lasciato una traccia nel dettato di De Angelis. Si pensi al suo Due nelle forze, che ricorda Due nel crepuscolo della Bufera e altro; oppure si leggano le elencazioni – di oggetti, strade, occasioni private - degli ultimi testi di De Angelis, specie nel Tema dell’addio, che sembrano volere rimandare quasi puntualmente alla prima delle Due prose veneziane contenute in Satura).