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In questi giorni il traffico a Delhi sembra impazzito. Per una settimana il cielo è stato oscurato da una spessa coltre di smog causato dai gas di scarico, ma anche dalla foschia tipica di questa stagione. Ieri mi trovavo in scooter sull’Aurobindo Marg, ridotta a un percorso di rally dai lavori della metropolitana. Eravamo tutti fermi. La gamba del motociclista davanti a me era incastrata tra un carretto di un ambulante di verdura e i nuovi mega autobus Tata “Marcopolo” con aria condizionata che hanno un tubo di scappamento largo come una grondaia. Viene fuori un getto di calore che sembra quello di un Boeing. Meno male che i bus vanno a metano e non a diesel. Improvvisamente mi è venuto in mente l’architetto e urbanista Massimiliano Fuksas, quello delle Nuvole dell’Eur e delle Bolle di Bassano del Grappa, ma anche quello della chiesa di Foligno, nuovo ecomostro di cemento nelle campagne umbre. Fuksas era stato invitato la scorsa settimana dall’Ambasciata Italiana per tenere una conferenza a New Delhi e a Mumbai. Nonostante la sua fama internazionale, non mi sembra abbia nessun progetto in India. D’altronde qui l’architettura contemporanea di ispirazione occidentale si è fermata a Le Corbusier. Per fortuna - aggiungo - vista la discutibile eredità lasciata dall’architetto franco-svizzero a Chandigarh, capoluogo del Punjub che, però - lo riconosco - è la più pulita e ordinata delle metropoli indiane. Tutto sommato in India ci sono (ancora) pochi obbrobri edilizi, anche perché non ci sono soldi per opere faraoniche e nelle megalopoli come Mumbai oltre la metà della gente vive ancora nelle baraccopoli o per strada. Rispondendo a una domanda di una studentessa di architettura, Fuksas si è lamentato del livello di traffico di Delhi e della qualità dell’aria. “Dovete fare qualcosa, così non potete andare avanti” ha detto con una certa enfasi. Seduto al suo fianco c’era l’architetto indiano Raj Rewal, che a differenza dell’archistar italiana, ha un approccio più umanistico e soprattutto più ecologico, ma stranamente non ha detto nulla. D’altronde che dire? A Delhi ci sono dai 15 ai 20 milioni di abitanti a spanne, perché è impossibile contarli. Come tutte le altre metropoli attrae come una calamita i poveracci e diseredati delle campagne di Up e Bihar. Ogni giorno si aggiungono mille nuovi veicoli immatricolati. Meno male che c’è stata una battuta di arresto con la crisi. A ottobre però le vendite di auto sono schizzate del 34 per cento con buona pace delle industrie automobilistiche straniere che puntano sull’India. E non è neppure ancora arrivata la Nano perché devono ancora costruire la fabbrica! Sabato scorso il Times of India ha pubblicato uno studio sulla “grande Delhi” (NCR si chiama ovvero National Capital Region) che comprende anche le città satelliti in un cerchio dal raggio di 300 km. Si prevede una popolazione totale nel 2011 di oltre 48 milioni di persone che nel 2021 salirà a 64 milioni e nel 2031 a 86 milioni. Decine di milioni di pendolari per lavoro, per studio e per altre ragioni ogni giorno confluiranno verso il centro di Delhi. Presto molti di loro avranno l’auto che oggi non si possono permettere. Penso che le attuali tangenziali e sopraelevate in costruzione saranno ridotte a vicoletti e ponti dei sospiri come a Venezia. Non ci sarà più una città, ma un asfissiante e assordante labirinto di asfalto. Che fare? Disincentivare l’uso dell’auto? Nessuno al mondo ci è finora riuscito. Una soluzione sarebbe disegnare le città secondo nuovi criteri, evitando gli errori e orrori urbanistici che noi in Occidente abbiamo commesso in passato. Perché non provare a rimpiazzare gli shopping mall, business center e grattacieli alla Dubai con lo shopping on line e il telelavoro? Tante isole verdi residenziali, dove il posto di lavoro è a casa o al massimo a dieci minuti a piedi. Con internet e fibre ottiche è possibile. E per fare la spesa c’è il negozietto del quartiere o si possono tenere gli ambulanti con il carretto che si vuole eliminare perché rallentano la circolazione. Utopia? Secondo me si può, basta che gli urbanisti e architetti pensino un po’ di più ai bisogni della gente e meno agli effetti della luce che filtra da un loculo di cemento.
Riporto qui di seguito il commento di Corrado Colombo ricevuto per email:
Vagabondando qua e là ho letto la nota sul suo blog relativa alla conferenza di Fuksas. Detto da architetto, complimenti per non essere caduta nella bufala del “grande maestro”. Premetto che io sono proprio un architetto da barzelletta, che parla da architetto e difende percezioni che la maggior parte della gente non condivide assolutamente, ma di fronte a certe prese per i fondelli mi ribello.
Io, devo dire, di fronte agli edifici di Chandigarh mi sono abbastanza emozionato, e forse proprio per la poetica tensione dialettica che percepivo tra la sua aulicità (e, d’altra parte, come ignorare storicamente l’enfasi che Nehru doveva pretendere nella nuova capitale) e l’incontro con il quotidiano. D’altra parte sono sempre stato affascinato dalla contaminazione, anche impropria, tra l’eccelso e il quotidiano, siano gli evangelici mercanti alle porte del tempio siano i venditori ambulanti sulla piazza dei tre poteri di Brasilia. Ad Ahmedabad, in un contesto fisico ed in un programma diverso, Le Corbusier ha comunque a mio avviso dato prova di forte capacità di confronto con la matericità propria del luogo.
Comunque, chiuso l’inciso, torniamo a Fuksas. Sono profondamente irritato da come la gente, anche colta e animata da rimarchevoli sensibilità in altri campi, tenda a farsi prendere in giro quando si parli di architettura e trasformazione dell’ambiente.
Da un lato, il gretto conservatorismo estetico della piccola borghesia che cerca il conforto dei valori consolidati (quante case abbiamo visto di amici “colti”, un po’ country, un po’ etniche, qualche pezzo di design storico conclamato… insomma rassicuranti) dall’altro l’acritica approvazione di qualunque cosa faccia il primo furbone che sappia usare come si deve la comunicazione.
Fuksas ne è l’esempio classico. Mi spiace dire cose che potrebbero dire Bondi o Berlusconi, ma le sue comparsate dal divo Santoro sono state una operazione degna del migliore gioco delle tre carte come si faceva tanti anni fa a Porta Palazzo. Balle, balle, balle e quattrini in tasca. Il nuovo vate dell’architettura, benedetto da San Michele (non lo amo molto, si capisce, vero?) è uno tra gli italiani con i redditi più alti almeno negli ultimi 3 – 4 anni. Anche nei deliri dei grandi maestri dell’architettura moderna c’era comunque una base di superego esasperato, di delirio di onnipotenza, ma era comunque finalizzato e subordinato al senso di una finalità etica generale, di una missione in cui il vantaggio personale non trovava spazio. Le Corbusier era convinto di poter cambiare il mondo, ma quando morì credo che l’unica ricchezza che lasciò ai suoi eredi sia stata una serie di disegni, oltre al modesto capannone di Jouan les Pins. Luis Kahn, tanto per restare a grandi che hanno segnato con tracce dell’architettura contemporanea il subcontinente indiano, morì stroncato dalle fatiche dei suoi viaggi in una stazione, sommerso dai debiti contratti per perseguire i suoi sogni.
Le nuove “archistar” (parolaccia, la uso scusandomi tanto per farmi capire) che riempiono il mondo con grattacieli storti, aggrovigliati, piegati, coricati… raccontandoci pure che sono concepiti con particolare sensibilità energetica (come se anche un bambino non capisse che il miglior approccio energetico consiste nel non costruire milioni di metri cubi utili solo a produrre profitto) con spregiudicatezza da couturiers milanesi, accumulano ricchezze personali da big dell’informatica.
L’etica di quanti sottoscrissero la Carta di Atene indubbiamente era un’altra cosa.
Due ultime notazioni. Può darsi che al momento Fuksas non abbia commesse in India,ma se è venuto a fare una conferenza di sicuro finirà per averla. Il nostro amico non fa viaggi per diporto!
La seconda è più seria. Credo sia importante, molto importante, pensare che i bisogni della gente non siano, e non debbano assolutamente essere, antitetici agli effetti della luce che filtra dalle aperture di uno spazio. Non può esser così. Non lo è mai stato da quando l’uomo cominciò a mettere le pietre l’una sull’altra, non lo è stato nella costruzione delle abbazie cistercensi, in cui, con l’applicazione dei principi di san Bernardo, l’uomo, costruttore secondo un principio divino, usava al meglio i materiali, la luce, la tettonica, gli schemi di riferimento per costruire spazi poetici e funzionali, rapportati al territorio ed al paesaggio in termini utilitaristici e di arricchimento nella trasformazione. Non lo è infine i grandi o quotidiani esempi di architettura contemporanea, della nuova costruzione, del riuso o comunque della reinvenzione del dialogo con la città esistente.
Facciamo attenzione, è importante, il costruire è un atto magico e poetico, l’uomo non se ne può privare se non con prospettive suicide, di perdita di considerazione per sé stesso e per la generazioni future. I tecnicismi (e il soddisfacimento dei bisogni può facilmente diventarlo) uccidono la globalità e la ricchezza di uno degli atti più importanti dell’agire umano.
Complimenti ancora per il suo lavoro che seguo ed apprezzo.