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Poco conta il grado di parentela o vicinanza al defunto: in una chiarezza esemplare di dialoghi e tocchi descrittivi d'ambiente, pur con pennellate di discutibile scatologia, lo sceneggiatore Dean Craig ha creato un universo dove il sé domina e i ruoli hanno la meglio sulle relazioni. Cristallino l'egocentrismo vanesio di Robert (Rupert Graves), il figlio scrittore di successo, ma squattrinato, che viene al funerale in prima classe per mantenere uno status; lampante, per parte sua, la predilezione della madre Sandra (Jane Asher) per lui, rispetto all'alterigia che la donna manifesta nei confronti dell'altro figlio, Daniel (Matthew Macfadyen), e ancor più della sua giovane e deliziosa moglie Jane (Keeley Hawes). Spaventosa la supponenza di Justin (Ewen Bremner), che va al funerale con l'ipocondriaco Howard (Andy Nyman), solo per vedere Martha (Daisy Donovan). Poco gli importa se questa presenta agli invitati, con l'occasione, il fidanzato Simon (Alan Tudyk), anche perché, a dire il vero, questi non è proprio in forma: prima di venire, ha preso quello che credeva essere un calmante - e in realtà si è rivelato un allucinogeno - in casa del cognato, il gaudente Troy (Kris Marshall).
Nomen omen, dicevano i latini, ovvero quest'ultimo ha il presagio nel nome: il giovanotto si rivela il vero cavallo di Troia, il baco di un sistema che presenterebbe troppo consueti elementi di banalità senza il suo tocco alchemico. Lo stesso misterioso, e peculiar, visitatore Peter (Peter Dinklage) avrebbe gioco meno facile se tutti gli ospiti del funerale fossero un po' più lucidi. Funeral Party, con ironia inglese, demenziale e un po' cattiva, rischia di urtare qualcuno un po' più suscettibile; del resto, è sufficiente prendere un po' le distanze e diventa il divertentissimo spaccato di un mondo vuoto e superficiale alle prese con la morte. D'altra parte, il "momento finale" viene così relegato a fondale della storia, che non trovo, nel film di Frank Oz, nessuno scherno, torbido, volgare o irrispettoso.
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