Questo non è esser morti,
questo è tornare
al paese, alla culla:
chiaro è il giorno
come il sorriso di una madre
che aspettava.
Campi brinati, alberi d’argento, crisantemi
biondi: le bimbe
vestite di bianco,
col velo color della brina,
la voce colore dell’acqua
ancora viva
fra terrose prode.
Le fiammelle dei ceri, naufragate
nello splendore del mattino,
dicono quel che sia
questo vanire
delle terrene cose
– dolce –,
questo tornare degli umani,
per aerei ponti
di cielo,
per candide creste di monti
sognati,
all’altra riva, ai prati
del sole.
Antonia Pozzi
3 dicembre 1934
Il 2 dicembre 1938, quattro anni dopo aver scritto questa delicata poesia, Antonia Pozzi, poetessa milanese, si suicidò ad appena 26 anni, ingerendo dei barbiturici e lasciandosi morire nei pressi dell’Abbazia di Chiaravalle e lasciando una lettera ai genitori in cui esprimeva la sua “disperazione mortale”, dove la morte giunge livida, “abbrividendo con le spalle nude”.
Di famiglia agiata, padre avvocato, madre contessa, viveva a Milano in una elegante dimora di via Mascheroni. Fin dal liceo scriveva poesie, che però vennero pubblicate solamente dopo la sua scomparsa dopo una attenta e puntigliosa catalogazione da parte del padre anche se, in un primo momento, molte cose furono tenute nascoste per salvaguardare il buon nome della famiglia. Solo dopo anni furono resi noti tutti i suoi scritti, compreso quelli riportati sul diario che teneva fin da studentessa, quando intratteneva una relazione con il suo insegnante di latino e greco. È ricordata anche come fotografa (“nelle fotografie si vede la mia anima”), che ritraggono per lo più paesaggi, ma anche personaggi della montagna raffigurati nelle loro occupazioni quotidiane.
Adesso è ricordata come una delle più grandi poetesse del nostro tempo.
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