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Funzione preparatrice di un regno, il nuovo album di Ninfa Giannuzzi

Creato il 17 gennaio 2012 da Faprile @_faprile
 Il Paese Nuovo, 2012-01-17Image Mentre ascolto, o credo d’ascoltare, c’è un caminetto. Il legno brucia senza arrendersi realmente al uoco. Scricchiola, s’articola la sua voce. Dice – Sarò altro, sarò nuovo. Il fumo sgorga in articolati versi e spersi sentieri, s’accende ancora la fiamma, ancora fumo ancora e si stringono fumi e fumi che si alzano e sembrano seguire il verso, il tempo, di una voce che, lacera, non inciampa in minuti e secondi che inceppano e tentano, solo tentano, il ferimento del ritmo, del senso ch’è al di fuori dell’ascolto stesso e si metabolizza. Mentre attorno, ancora, fumi siglano parole di cenere sulle spalle e scende il senso, come sera, sulle strade stanche, eruttate fuori dal vento. ImageC’è “Funzione preparatrice di un regno” che suona nella stanza. Il nuovo album di Ninfa Giannuzzi. Nove brani. Diversi approcci che all’orecchio s’accostano. Diverse sensazioni su un tracciato unico, quello di chi dalla musica ha tratto il senso. Un senso. C’è questo spazio dove testi e musiche sono di Ninfa Giannuzzi ed Egidio Marullo, ad esclusione di “Miele d’api” e “Modi di vedere il mare” – rispettivamente e liberamente tratti da “Le Fleu” di E. Verhaeren e dall’omonimo racconto di Louis Sepùlveda – arrangiamenti di Egidio Marullo, mixaggio Valerio Daniele e Egidio Marullo, progetto grafico Egidio Marullo. Il disco ha inoltre ospitato Valerio Daniele (chitarra), Emanuele Licci (chitarra e bouzuky), Giuseppe Spedicato (basso), Admir Shkurtaj (fisarmonica), Dario Margiotta (chitarra elettrica), Marco Della Gatta (pianoforte), Roberta Mazzotta (violino), Palmiro Durante (chitarra classica e guitalele), Emanuele Coluccia (sax soprano), Giorgio Distante (tromba). Ci sono momenti, situazioni, che portano ad incontri in cui l’ascolto sa farsi portatore di un peso, che è quello di una musica che si relaziona in un luogo che non è più quello preposto al semplice ascolto, ma è semenza che cresce e si lascia dietro segni, che sono orme di un passaggio che è la continuazione e il senso della musica stessa. È in questo spazio, in questo “segno” che s’alimenta «l’odore dei ricordi» mentre le distanze, fra immagini suoni e parole, crescono e decrescono con la stessa intensità del tempo che cambia. Ci sono momenti che ci portano davanti a persone in cui persona e musica si fanno inscindibili, pratica di una voce sofferta che trascina con sé le nebulose sociali che ci attanagliano e libera, per un attimo che nell’ascolto corre, ciò che ci appartiene e che il quotidiano ci scuce di dosso, fino a farci dimentichi di noi stessi. «Siamo diventati narcisi selvatici/abbiamo imparato a specchiarci/perché oltre il quadro non troviamo un muro/ma una sedia con una catena liberata», recita la voce di Ninfa Giannuzzi nella traccia, la prima, che dà il nome all’album. È in queste situazioni che si rafforza la sensazione per cui è impossibile scindere persona e musica, e si discostano, Ninfa Giannuzzi, Egidio Marullo e i musicisti che in questo disco li accompagnano, da quella dimensione tipicamente “social” che il momento storico pone in essere, disarticolando, fuoriuscendo da quella pratica contemporanea per cui a dire di sé è l’immagine profilo di facebook, svalutando il momento artistico, ridotto a mera rappresentazione d’inesistenza. È in questo contesto che la voce sofferta, lacera, graffiata, di Ninfa Giannuzzi è leitmotiv di un disco condotto con esperienza e fare artistico che bene si mescola con le atmosfere musicali che, di brano in brano, non risparmiano i ricordi e s’allacciano al tempo che passa, smuovendo sonorità ora floydiane ora alla Joplin, ora rock ora grunge e altro ancora, per un campionario emozionale sistematicamente attualizzato, relazionato all’epoca storica, mai datato, mai passato, ma che è sincronico ad un periodo indeterminato, consapevole di una propria maturità stilistica. C’è una voce che urla di sé. È nella consapevolezza di questi mezzi, nel mestiere dell’esperienza, che si presenta questo disco che è un disco vero, che spezza le solite catene, ora di moda, per cui è bello dire o sentirsi dire che non si è o non si appartiene al solito Salento da cartolina turistica, e si pone, conscio del suo spessore, al di fuori dei localismi da provincialità latente o manifesta che niente hanno a che a fare con l’aspetto artistico in quanto tale. Francesco Aprile
2012-01-15
Filed under: Frammenti

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