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Fuoco

Creato il 06 novembre 2012 da Postscriptum

Fuoco

Cefalù 13-11-1920

Un essere di fuoco! Non una creatura costituita della sua pelle – la sua carne – cui il fato destinò in un dato momento la malaugurata accensione dell’epidermide, bensì un essere creato e composto sin dall’origine di fuoco empedocleo. Generato su quella forma terreste che è il prodotto immediato della combustione. Quest’ultima notazione basterà – almeno per un po’ – a far tacere le ipotesi di quei tanti che potrebbero teorizzarne una provenienza aliena al sistema terrestre. Se ciò fosse possibile – ogni lettore se ne renderà conto – la cosa sarebbe incomparabilmente preferibile all’immagine che il nostro mondo abbia potuto generare l’idea di un simile mostro. Agglomerato di pulsanti vene di fuoco, dentro cui scorre sangue di fuoco, organizzato su una struttura di fuoco. La forma è impossibile definirla, essendo questa mutevole come un incendio. È probabilmente fuori dalle mie capacità di analisi formulare descrizioni – o addirittura solo pensarle – in merito alla struttura ossea di questo essere mostruoso.

Continuo ad osservarlo, nelle sue sinuose movenze, mentre avanza lungo le pareti scoscese della roccia. Si arrampica ululante, gorgheggiante di fiamme, mentre fagocita nugoli di insetti istupiditi dal calore. Forse le sue non sono intenzioni rie, non vuol far del male ad esseri umani. Anzi, ardirei dire che non vuol neanche provocare timori in essi. Lo intuisco dal fatto che nessuno intorno a me sembra essersi accorto della sua ingombrante presenza. Nessuno, eccetto, gli insetti e alcune viscide forme che si innalzano, mostrando denti digrignanti.

Ho meditato sull’intenzione di spegnere il fuoco. Ma ho l’impressione che esso sia inestinguibile come quello che immaginò Milton per i suoi eroi. Non ho paura, non ne ho il bisogno, forse è questo il mio problema.

Quello appena riportato è un documento che ho rinvenuto nella cantina di una anziana signora di cui mi occorre adesso tacere il nome, per il rispetto che le debbo. Quando trovai tale scritto fui subito incuriosito da due cose: la data ed il luogo. Molte cose mi fecero pensare stupidamente ad un collegamento con la presenza di Aleisteir Crowley in Sicilia. In realtà, l’assoluta assenza di diretti ed espliciti riferimenti sessuali avrebbe dovuto già farmi pensare che ero fuori strada. Intendiamoci, occorre avviare un procedimento mentale di stampo freudiano per pensare al fuoco come elemento essenziale in un rito di tipo eleusino. Ma la natura dello scritto mi porta oggi a concludere che di estremi per arrivare a tali congetture non ce ne siano abbastanza. Sarebbe stato più interessante approfondire il dato certo che mi confermava sin da allora l’assoluto stato di analfabetismo della signora in questione. Ragion per cui il documento doveva esser stato scritto da altri. Persona di media cultura, immagino…e sicuramente dalle conoscenza anglofile (Milton e non Dante, perché?). Nell’Italia del ventennio la cosa mi sarebbe dovuta saltare subito all’attenzione. E invece mi sono intestardito sulla chiave esoterica dell’enigma. Ho trascorso così gli ultimi tre anni della mia vita a cercare notizie che potessero fondare le mie presunzioni. Vanamente, rimediando solo sconforto e delusione!

Infine, trovandomi recentemente a discutere con la signora, a proposito di quel pezzo di carta misterioso, dopo una liberatoria risata, la stessa ha deciso di svelarmi il mistero. Trattavasi di un gioco che essa faceva da bambina, e che quel tredici novembre del ’20 aveva per noia pensato di rievocare: appoggiando il capo ad uno specchio poco distante a sua volta da una finestra che dava sul Corso di Cefalù, con gli occhi quasi appiccicati alla superficie, osservava i colori deformati che vi si riflettevano dal di fuori. Scendendo ancor più nei particolari, la signora ricordava abbastanza bene che in quell’occasione – quella cui si riferiva lo scritto – il vetro della finestra era cosparso di gocce di pioggia e, all’esterno, le luci di una lontana festa di paese, assumevano quelle curiose forme descritte nel documento. Mi ricordai di una frase, da un racconto di Belgiorno: “Una parte della città si rifletteva sulla vetrata, e ciò che poteva vedere in tenere sfumature, era come un miraggio che lo affascinava più del paesaggio vero.”

Gaetano Celestre

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