Fuori città. Un cavalcavia di cemento armato. Spunzoni di ferro che fuoriescono come spighe arrugginite dal ventre improduttivo del cemento. Intorno, erbacce ingiallite, colate di cemento e rifiuti. Sullo sfondo un mucchio di cianfrusaglie: sportelli di auto, aste lunghe ed arcuate, cerchioni di auto grigie, gomme bucate e bruciacchiate. Accanto un cane si inerpica sui sentieri metallici dei rottami mentre le macchine corrono veloci ammirando dall’ alto l’inferno grigio e inanimato. La strada che collega il sottopassaggio del cavalcavia ( poco più di un dormitorio pubblico)all’ uscita autostradale è tappata da cumuli di materiali inutilizzati. Bande di polistirolo, lamiere di acciaio, prefabbricati di ogni genere. Ecco quel che resta del “ progresso per una nuova comunità” così come lo aveva enfaticamente annunciato il sindaco, quattro anni addietro. I materiali imballati, infatti, rappresentano la testimonianza scheletrica di un lungo asse stradale che collegasse la città alla periferia fino all’ imbocco dell’ autostrada. Nuove priorità, investimenti destinati a opere di sviluppo più importanti, permessi e licenze che mancano, gare d’ appalto, imprese fannullone e sub- affittuari di lavori pubblici, malavita. Insomma, la ricetta che fa trasformare cose solide e visibili come denaro, progetti, capitale umano in coltri fumanti e sfuggenti. L’ unico momento di sollievo che si respira nell’ inferno anonimo della periferia è la venuta della pioggia. L’ unico elemento in grado di restituire fascino e persino poesia a un luogo tempestato dalla degradante modernità. La pioggia cancella il graffio profondo lasciato dal progresso, restituendo a questi luoghi una straziante brutalità. La pioggia aumenta l’ intensità. Di colpo smette. Uno squarcio di sole. Poi lo stesso grigiore di sempre; quello dei cavalcavia, delle strade mai progettate, degli assessori, della gente comune. La gente che abita nei dintorni è diventata grigia lentamente. Si recava nelle fabbriche; ritornava la sera. I figli di quegli operai, oggi, sono avvocati, immobiliaristi e malviventi, politici naturalmente. Si prestano e scaricano favori a seconda delle circostanze. Quindi, molto di frequente capita che l’ immobiliarista si rechi dall’ avvocato affinché gli consigli un cliente ingenuo da spennare; a sua volta l’ avvocato accoglie nel suo studio ( interamente foderato con poltroncine e sofà) il malvivente per chiedere appoggio professionale a lui e ad altri come lui. Insomma un meccanismo ben congegnato, dove nulla è lasciato al caso. In città si decide il destino della periferia, delle sue famiglie, dei suoi ultimi spazi vivibili. Il tutto avviene tra strette di mano, firme, sorrisi ammiccanti e convenevoli di ogni tipo. L’ altro giorno le ruspe dell’ impresa Arletti hanno espropriato un terreno di fianco all’ inferno del cavalcavia. Due abitazioni abbattute. Indennizzo appena bastevole a trovare un nuovo alloggio. Pubblica utilità. Questa la motivazione. In città è arrivato il nuovo commissario. Sembra in gamba. Una coppia di folti baffi, giacca trapuntata con rombi rossi e neri. Fuma sigari toscani. È del nord. Ha l’ accento dei dintorni di Trieste. Malleabile. Così viene giudicato in periferia chi mostra un così vistoso attaccamento al dovere. Con molta probabilità avrà già ricevuto, sulla sua bella scrivania, il primo telegramma di auguri accompagnato da qualche invitante regalo: braccialetto, portasigarette, orologio. E’ nella natura dei rapporti umani di questo posto ammorbidire chi ti può dare noie, fastidi, problemi. E’ una specie di patto con il diavolo. Ci si allea con lo Stato ( o almeno con un suo rappresentante) per ottenere qualche boccata di vita in più. E che vita! Terreni edificabili su cui erigere alberghi per turisti, costruire strade chilometriche e sfavillanti, godersi i soldi e i frutti vergini degli intrallazzi in mete esotiche e lontane. In sostanza, un diavolo dalle uova o , se si preferisce, dal fuoco tempestato d’ oro. In fondo, si “reca” un vantaggio alla comunità e all’ economia locale. Tutto è lecito. Lo spiano che si apre al di sotto del cavalcavia è dominato da un altro particolare, opportunamente tralasciato: a cento metri dal monticciolo di rottami è in attesa una macchina: una Mercedes nera, dal parafanghi color acciaio. È targata RO AG55VV. Vetri scuri. Motore acceso. Un incontro lontano da occhi indiscreti. Di breve durata a giudicare da come l’ autista scalda il motore. Dal groviglio dei polistiroli si fa avanti un uomo. Alto. Giubbotto di pelle nera su una maglia bianca. Un paio di jeans rattoppati. Indossa un paio di occhiali scuri. La fronte marcata da rughe che si estendono sul volto sicuro e protetto da una discreta abbronzatura. Non è lui il protagonista dell’ appuntamento. Un altro motore accende il caldo pomeriggio di ottobre. L’ auto arriva perpendicolare alla Mercedes. Si ferma a due metri. Solleva un turbinio confuso di polvere. Lo sportello si apre dopo un breve segmento di attesa, in cui l’ aria trattiene il suo torbido respiro. L’ uomo dagli occhiali scuri resta fermo sul fondo della scena. Dalla macchina, un’ utilitaria rossa, scende un uomo di bassa statura. Capelli sfoltiti. Giacca a righini marroni con venature di beige. La camicia disegna la linea pingue del ventre. Il volto è un ovale biancastro punteggiato di macchie color vermiglio in prossimità delle guance e delle mandibole. Compie mezzo giro intorno allo sportello sinistro della vettura. L’ uomo non è solo. Nella mano destra stringe una borsa di velluto nero. Un altro particolare: sotto la giacca l’ uomo nasconde una pistola. Quindi ha calcolato che l’ incontro potrebbe degenerare. Tenta di avvicinarsi. Ma l’ uomo dalle lenti scure lo ferma bloccandolo con un cenno. Il sole picchia con i suoi colpi oltre la coltre biancastra delle nubi. La Mercedes nera scivola lentamente sulla polvere infuocata mentre dall’ auto una voce sussurra: – Assessore questo è per lei – . Dal giubbotto di pelle nera l’ uomo estrae una pistola con silenziatore. L’ assessore crolla spalle all’ indietro sul cofano della sua auto.
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L’ assessore ai lavori pubblici Cosimo Arletti fu trovato da un passante disteso sulla propria macchina con la bocca spalancata e due enormi chiazze di sangue: una al fegato e l’ altra al cuore. La notizia si diffuse rapidamente in città. Naturalmente l’ assassinio dell’ assessore non poté non far registrare un grave terremoto politico nella maggioranza. L’ assessore alle politiche del lavoro e quello dei beni ambientali si dimisero. Il sindaco tentò un rimpasto della giunta. L’ opposizione colse la palla al balzo istigando la stampa con titoloni e processi sommari alla maggioranza, rea di aver contratto alleanze con la malavita locale nell’ ambito della gestione degli appalti pubblici e dello sfruttamento della manodopera immigrata. Seguirono giorni di vera tempesta. Sui giornali fecero la loro apparizione interminabili elenchi di personaggi, ex detenuti ed esponenti politici. Tutti coinvolti in un sottile equilibrio di potere che la morte dell’ assessore aveva inevitabilmente infranto. Sulla scena del delitto si presentò, verso le undici, il commissario. Accese uno dei suoi toscani. Rivolse qualche domanda agli agenti. Notò il particolare della pistola che a malapena fuoriusciva dalla fondina. Il giorno seguente furono preparate le esequie. Era presente tutta la città. Gente comune, giornalisti, telecamere e familiari affranti. Dietro il lutto del doppiopetto, sfilava il sindaco con la sua capigliatura ispida. La fascia tricolore era aderente ai fianchi asciutti. Lo seguiva l’ assessore al turismo imprigionato in un vestito blu scuro. Gli altri esponenti della giunta presero posto sulla panca laterale a quella della vedova e dei figli.. La cattedrale di S. Giovanni brulicava di suoni indistinti che salivano in alto fino a fondersi con la cappa di aria umida e soffocante. La funzione ebbe inizio a mezzogiorno preciso. Era presente anche il commissario, che si teneva in disparte in un angolo buio della navata. Da quell’ osservatorio privilegiato scrutava visi, il convulso movimento di mille labbra, lacrime finte o sentite che fossero, il parlottare di due anziane signore. Era proiettato di colpo nel microcosmo isolato di una città sprofondata nel vuoto più completo. Alle spalle della vedova, la signora Marianna Lo Monaco, sedeva il fratello dell’ assessore, il costruttore Vincenzo Arletti. La sua impresa di costruzione aveva cantieri aperti in tutta la regione. Ebbe noie con la giustizia soltanto una volta. Uno scandalo di mazzette. Un suo collaboratore fu sorpreso dalla polizia mentre rifilava una tangente a un assessore, per ammorbidire sue riserve in merito all’ edificabilità di un terreno. Non se ne seppe più nulla. Il reato cadde in prescrizione; tant’è che ne uscirono puliti il collaboratore, l’ assessore, l’ Arletti e il terreno edificabile su cui fu costruito un quartiere residenziale. Ora eccolo lì, con il suo sguardo affaticato difeso a malapena da due folte sopracciglia nere aggrappate ad una fronte raggrinzita e spenta. Sembra partecipare commosso al dolore per la morte del fratello. Ripetutamente, estrae dal gilè un fazzoletto bianco; lo porta al collo, si deterge il sudore. Il profilo è dominato da un naso punteggiato da un bitorzolo con le guance che recano i segni di una mediocre rasatura.
La cattedrale era gremita all’ inverosimile; coloro che erano rimasti in piedi affollavano ogni pertugio dell’ ingresso. Una selva di giacche, gomiti e polsini rendeva impenetrabile l’ accesso alla navata centrale. Davanti al portone d’ ingresso stazionavano una quindicina di uomini ben in salute dai colletti bianchi e senza cravatta. Un giovane dalla pelle olivastra tentava vanamente di dimenarsi tra quella folla immobile. Indossava una maglietta bianca laderente su un pantaloncino scuro a pescatore. Ai piedi un paio di scarpe marroni. Attirò su di sé lo sguardo infastidito dell’ ultima fila di fedeli. Si diresse verso l’ Arletti. Gli bisbigliò qualcosa all’ orecchio. L’ uomo si alzò. Con stile abbottonò la giacca, fece il segno della croce. Ed uscì. Ricomparve due ore più tardi. Al cimitero. La folla si dissolse in breve tempo. Rimasero i parenti più stretti, tra cui l’ Arletti che teneva sottobraccio la vedova. Capelli mossi dal vento e una ferita al collo coperta malamente dal bavero della giacca.
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La morte dell’ assessore tenne banco ancora per diversi giorni. Se ne discuteva nei circoli, nei bar, per le strade e, naturalmente, nella piazza principale antistante al commissariato. Di lato ad essa scorreva una piccola pista ciclabile in terra battuta. Ogni domenica mattina il commissario sfoderava la sua bicicletta e faceva lunghe passeggiate. Abitava in uno dei palazzi signorili della città. Al quarta piano. In via dei Mille. Un piccolo appartamento che affacciava sul lungomare. Da giorni, il suo lavoro aveva invaso anche quell’ abitazione con archivi, foto segnaletiche, bozze ed appunti, pile indescrivibili di giornali. Sul comodino un abat-jour pendente dal lato sinistro e pagine di un libro svolazzanti: Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust. Allo stesso piano del commissario abitavano il ragioniere Bellizzi e il colonnello Sciarrimanico, entrambi in pensione. Il mese di novembre non portò nessuna novità di rilievo. Se non per il tempo che cambiò radicalmente. Alle giornate afose ed anomale di fine ottobre, subentrarono venti moderatamente freddi, con banchi di nebbia al mattino e piogge battenti nel tardo pomeriggio. La lunga corsia ciclabile si svuotò presto di biciclette e passanti. Anche sulla piazza si vedevano meno persone rispetto a poco tempo prima. Due gruppi di anziani. Il barista che girava le sedie sui tavolini. L’ autobus con le sue fermate scontate. Una volante che usciva dal commissariato. Lo stridulo suono della sirena si perdeva lontano. Il commissario si era rinchiuso nel suo appartamento. Da due giorni non si recava in ufficio. Studiava per ore intere il materiale del caso Arletti, aggiornandosi di continuo. Dai tabulati telefonici risultava che la vittima mezz’ ora prima dell’ omicidio aveva telefonato al sindaco. Lo avevamo lasciato, quest’ ultimo, al funerale dell’ assessore imbottito nel suo pesante doppiopetto da cerimonia. Come il commissario, il sindaco amava passeggiare per la città, scrutare le vetrine dei negozi; si intratteneva sovente nel circolo di partito; scambiava qualche chiacchiera con un amico, valutava l’ attuale posizione politica del paese mentre gustava un gelato sul porticciolo. Poi si ritirava nella sua abitazione di Via dei Reduci, distante due isolati dal palazzo in cui viveva il commissario. Da vent’ anni amministrava la città con giunte diverse, apatiche, brulle. A colpi di rimpasti, scioglimenti, il sindaco aveva cambiato il volto della città. La periferia, ora, pullulava di palazzi, casamenti di cemento, strade, ferrovie. Facevano parte del paesaggio anche le miriadi inermi di cantieri, di operai dalle pelli abbronzate, di camion e gru che inscenavano una sorta di saga spaziale con i loro movimenti contorti e pesanti. L’ ufficio del sindaco si trovava al secondo piano di Palazzo Armosini, sede del podestà durante il regime fascista. Il commissario recò visita al sindaco alle dieci. Le notti insonni avevano fiaccato la sua salute. Soffriva di una fastidiosa gastroenterite dovuta, forse, al caldo anomalo dei giorni scorsi o a una scorretta alimentazione. Insomma, recava i segni di quel cedimento fisico in un volto smagrito e in una barba incolta e intirizzita. L’ incontro non rivelò nulla di significativo. Il sindaco confermò la telefonata dell’ assessore, dicendo che si trattava di un normale colloquio di lavoro. Quando il commissario fece notare al sindaco che mezz’ ora dopo quella telefonata l’ assessore fu assassinato, il sindaco rispose che di certo non poteva prevederlo. Una stretta di mano cordiale. Il giorno seguente, alle tre del pomeriggio fu ascoltato in commissariato il fratello dell’ assessore, Vincenzo Arletti. Indossava una camicia color ghiaccio su un paio di pantaloni neri rigati. Sul naso spuntavano gli stessi occhiali da sole del funerale. Intorno al colletto della camicia un foulard di seta. Al polso un Rolex d’ oro. I capelli erano folti e striati da solchi bianchi. Ci risulta – esordì il commissario – che una delle sue imprese di costruzioni all’ estero, la Kaber Costruction s.p.a. con sede ad Amburgo, in Germania, e da lei rilevata nel marzo di quest’ anno ha vinto la gara d’ appalto per la costruzione dell’ asse stradale all’ altezza del cavalcavia. Ci può dire a quanto ammonta l’ offerta fatta dalla sua società per aggiudicarsi la gara? Duecentocinquanta milioni – rispose – . Ha altri cantieri attivi nella regione , oltre a quelli della Kaber Costruction?. Sì. Quanti operai lavorano per le sue società? Circa trecento. Circa o trecento? – volle puntualizzare il commissario – Trecentodieci. Il commissario si schiarì la voce con un colpo di tosse: può dirci dove si trovava al momento dell’ assassinio di suo fratello? Di colpo, un pugno partì sul tavolo facendo barcollare il piano della scrivania. Ma come si permette di levare simili insinuazioni! Mi dica dov’ era.. – ribatté gelido il commissario – . Ero su uno dei cantieri della zona; lo potranno confermare i miei dipendenti. Nulla in contrario se effettuiamo qualche controllo – concluse secco il commissario. L’ interrogatorio di Vincenzo Arletti mise di buon umore il commissario. Si allentò il nodo della sua cravatta rossa. Tirò una boccata al sigaro. Sorseggiò del caffè tiepido. Diede un’ occhiata rapida alle deposizioni rilasciate dall’ Arletti e si diresse verso la persiana che dava sulla piazza. Erano le quattro di un pomeriggio fuligginoso. I lavori ai cantieri dell’ Arletti erano stati sospesi per la pioggia. Il commissario ritornò alla scrivania. Restò in commissariato fino alle otto. Si fece accompagnare da una agente, pur abitando non molto distante da lì. Lo salutò e gli regalò un sigaro. – Non mi sento affatto bene, stasera – disse.
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Il rapporto sulla Kaber Costruction giaceva sulla scrivania del commissario da tre giorni. Per la sua compilazione erano stati sollecitati agenti della polizia tedesca, informatori, ex dipendenti, le sentenze del tribunale che aveva curato il fallimento della vecchia società. Un capitolo era dedicato ai nuovi acquirenti. In particolare, un prospetto dettagliato indicava con precisione che il 30,2% del pacchetto azionario apparteneva a un certo Hamed Khoulany, uno sceicco arabo con un giro imponente di affari in Europa. La parte restante del pacchetto era così distribuita: il 10, 5% a un industriale di Amburgo, l’ 8% a una società immobiliarista di Londra, il 15% a una multinazionale spagnola: la Iberican. Il 10,8% a un magnate del Volga Sergei Azunov, il 15,5% di proprietà di un imprenditore turistico svizzero. Infine, il 10% apparteneva all’ imprenditore edile Vincenzo Arletti. Così strutturata, la Kaber Costruction si presentava come un imponente prefabbricato di affari, relazioni, interessi di portata continentale. A metà settimana la gastroenterite del commissario era migliorata. Ritornò al suo lavoro di sempre. Notò sulla scrivania il rapporto Kaber. Scambiò un sorriso con i suoi collaboratori. Impartì ordini precisi in merito alle indagini. E sprofondò nell’ abisso biancastro delle pagine del rapporto. Note, appunti, grafici, cifre, cartelle fiscali. Il commissario sfogliava quei documenti con una inspiegabile sufficienza. Un particolare. Una cifra mutò il suo atteggiamento indolente. Un versamento di quindici milioni di lire a favore della cassa comunale, datato al 15 marzo di quattro anni fa. Nello stesso periodo in cui venivano inaugurati i lavori per la costruzione del nuovo asse stradale sottostante il cavalcavia. Per l’ intero pomeriggio il commissario non fece altro che associare nomi, date, versamenti tra loro sperando di cogliere un legame. Nella stanza calò lentamente la sera. La lampada della scrivania emetteva una luce blanda perforata da corpuscoli di polvere. Le associazioni pomeridiane indussero il commissario alla stanchezza. Decise di continuare a casa dopo essersi rinfrancato con un bagno rilassante. Preferì tornare a piedi con l’ involucro di carte sottobraccio. Snodò la sua andatura agile tra i lampioni luccicanti della piazza. Per il ritorno imboccò via degli Ulivi, la strada parallela a via dei Mille dove abitava. Scorse le vetrine dei negozi, dei bar, le bandiere del circolo dove si recava il sindaco; svoltò alla sua sinistra ed entrò in una farmacia. Comprò delle aspirine sperando che gli allentassero la forte emicrania che era sopraggiunta dopo tante ore di lavoro al chiuso. Faceva piuttosto freddo e per strada si distinguevano le ombre di pochi passanti che rincasavano. Il commissario rimpiangeva di essere solo in quella città. Le sue serate scorrevano monotone, senza nessuna forma di calore umano. Soltanto lavoro. Arrivò al suo palazzo. Salutò la portiera dal naso screpolato per un forte raffreddore. Si infilò nel suo appartamento. Accese il camino accanto alla finestra. Preparò il bagno. E pensava. Non faceva altro che pensare. Non si curava nemmeno di mangiare. Il suo cervello era intrappolato da pensieri che spaziavano dal lavoro, alla sua esistenza, alla felicità che non riusciva ad afferrare, al sogno di avere una persona accanto che lo capisse, lo amasse. Pensieri che regredivano, poi, in sogni lontani e proibiti. Era avvolto dal tepore fumante della vasca. Ascoltava un disco jazz, e fumava il solito sigaro. Sentì suonare alla porta. Frettolosamente si infilò l’ accappatoio colorato; intrufolò i piedi nelle ciabatte azzurre. Ed aprì. Sull’ uscio si trovava il giovane dalla pelle olivastra visto ai funerali dell’ assessore. Indossava una giacca di panno nero con grossi bottoni all’ altezza dell’ addome. Una coppola marrone e una sciarpa avvolta intorno al collo. Si intravedeva con difficoltà il viso tagliato simmetricamente dalla sciarpa in prossimità del labbro superiore. Il commissario lo invitò ad accomodarsi. Lui rifiutò. – il signor Arletti desidera incontrarvi domani, sul cantiere di Canasei. A l’una. Buonanotte, signor commissario. La mattinata successiva trascorse in modo tranquillo. Le indagini proseguirono tenendo calde molte piste: omicidio politico, regolamento di conti, vendetta per qualche oscuro motivo. Il commissario fece una rapida comparsa al commissariato verso le dieci per ritirare dei documenti che aveva dimenticato la sera prima. Poi ritornò a casa dove attese l’ ora dell’ appuntamento: accanto alla finestra scrutando i passanti. Uno sguardo alle montagne circostanti che digradavano verso la costa, il porticciolo con le sue barche colorate, la pista ciclabile colma di foglie giallastre, la piazza con i suoi deboli giochi d’ acqua e i quartieri residenziali che si aprivano a ventaglio con i loro stucchi bianchi e gialli, le strade asfaltate a traffico limitato. Con un movimento furtivo delle dita della mano sinistra il commissario poggiò il sigaro sul davanzale. Sollevò la mano destra portando alla bocca un bicchiere di succo di frutta. Dedicò l’ ultima porzione di tempo rimastagli alla lettura della posta. Tra il groviglio sconclusionato delle carte, notò una busta gialla. Lesse il nome del mittente. Laura Moretti. La busta conteneva le foto della donna scattate durante un soggiorno estivo. Alle foto era allegato un biglietto: ti aspetterò per sempre. Ripose le foto nella busta. Guardò l’ orologio. Prese il cappotto appoggiato sul bracciolo della poltrona. Le chiavi della macchina erano sul tavolo dell’ ingresso. Si assicurò che tutto fosse al suo posto. Per recarsi all’ appuntamento, il commissario si servì della sua macchina; un’ alfetta nera che si trovava nel garage vicino casa. Canasei era una frazione distante circa trenta chilometri dal centro. Il verde degli alberi era stato quasi tutto ingoiato dalle colate spietate di cemento. Le ultime case in muratura si difendevano con affanno dagli enormi piloni grigi che quotidianamente mettevano le loro radici in una delle colline circostanti. La strada provinciale per raggiungere Canasei era punteggiata di buche e costellata da enormi curve; priva di segnali stradali, anche quelli più elementari. L’ autoradio era sintonizzata su una frequenza jazz, il genere musicale preferito dal commissario. Una musica dolce e morbida che infondeva in lui una apparente tranquillità. Si fermò a un distributore per fare benzina. Mancava un quarto d’ ora a l’ una. Il cantiere era abbarbicato a una delle tante colline che componevano il paesaggio di Canasei. Un interminabile cordone di linee ondulate che si spegnevano nell’ orizzonte fumoso di inizio novembre. Quella fisionomia ricordava al commissario lo stesso groviglio di pensieri che attanagliavano il suo cervello. Fili intrecciati al punto da stringersi in solidi nodi, inestricabili. Tutta l’ impalcatura celebrale era tenuta insieme da quella semplice frase che aveva letto sul biglietto, accanto alle foto: ti aspetterò per sempre. L’ idea di un’ attesa eterna che sfidasse il tempo e le intemperie delle vita urtava con il livello precario in cui versava l’ esistenza del commissario. Giudicare gli errori altrui, ritenere un uomo responsabile o meno di un crimine, sospettare, indagare. Questo lo metteva a parte della fragilità e delle debolezze che articolavano la condizione umana. Con il passare del tempo, il commissario era diventato un uomo sospettoso e disincantato. Qualità professionali che si specchiavano, nel privato, in uomo fragile e apatico. L’ alfetta del commissario sostò davanti al cantiere. Alla sorveglianza era addetto un manovale sardo, quarantenne e abbronzato. Faccia tonda e pizzetto scuro. Buongiorno, signor commissario. Ho appuntamento con il signor Arletti – rispose dalla macchina– . Il signore Arletti vi sta aspettando. Il cancello di legno si aprì lentamente. Mentre la sua vettura si inerpicava sulle dune di terra e cemento, dallo specchietto retrovisore vide il manovale sardo ripararsi all’ ombra, sdraiato sotto un tetto di lamiere grigie. Per difendersi dalla polvere che entrava dai finestrini, il commissario portò alla bocca un fazzoletto scuro con il quale, contemporaneamente, si detergeva il sudore. L’ ufficio dell’ Arletti era un pergolato di lamiere colorate collocato a ridosso dell’ area in cui si effettuavano i lavori. Il commissario parcheggiò la macchina accanto a quella dell’ Arletti, nell’ area destinata al personale. – Si accomodi signor commissario. Il commissario esitò. Poi si risolse a sedersi. Su una sedia di acciaio dalle tese sicure, molto resistente.
- Le posso offrire qualcosa,? Non so. Una birra, un caffè, una bibita dissetante, faccia lei.
- Se non sbaglio, signor Arletti mi ha fatto chiamare. È evidente che lei ha qualcosa da dirmi. Quindi se potessimo arrivare subito al sodo, senza perderci in ulteriori convenevoli.. le sarei grato.
Le gote del costruttore si infiammarono d’ un tratto. E lente gocce di sudore si intrufolarono tra le vene del collo rigido.
- Evidentemente, signor commissario siamo partiti con il passo sbagliato..
- Cioè..
- Veda, lasci che le spieghi.. da anni sono nel mondo degli affari, ho imparato a conoscere gli uomini e quello che ho capito è che essi sono privi di moralità, dinanzi al denaro sacrificano i loro ideali e quello in cui credono.. mi risulta – il tonò della voce mutò all’ istante – che lei e i suoi uomini stiate indagando sul conto delle mie società, in particolare sulla Kaber Costruction che io rappresento nel nostro paese. Le devo dire che la cosa mi ha molto rammaricato; spero vivamente che si tratti di un semplice equivoco dovuto alla vivacità e all’ inesperienza di qualche suo collaboratore, commissario.
- Mi sta chiedendo di archiviare il caso, signor Arletti?
- Di moderare lo spirito di iniziativa dei suoi uomini. Spero che lei non dimentichi le accuse rivolte nei miei riguardi subito dopo l’ assassinio di mio fratello. Invece di concentrare l’ attenzione sui possibili colpevoli, riempite di calunnie me e la società che rappresento.
Il commissario sembrò accusare il colpo. L’ Arletti gustava sulle labbra secche del commissario una vittoria di carattere e di piglio dialettico. Il commissario tamburellò le dita sul tavolo in modo da tentare una controffensiva. Gli venne in mente quel particolare. Quella cifra intravista tra le pagine del rapporto Kaber. Quei quindici milioni versati al comune dall’ Arletti potevano dare, ora, una svolta decisiva alla conversazione.
- Signor Arletti, dalle nostre informazioni risulta un versamento datato al 15 marzo di quattro anni addietro a beneficio della cassa comunale. Le risulta?
- Sì.
- A cosa era destinata la somma?
- Alla realizzazione di opere di interesse pubblico.
- Che genere di opere?
- Su questo, commissario, non posso aiutarla. Il versamento della somma mi vide come un semplice intermediario tra la società Kaber Costruction s.p.a. e il comune.
- Cosa pensa del sindaco Bonanni?
- Una persona rispettabile.
- Ha avuto altri contatti con lui, oltre all’ intermediazione di cui ha parlato?
- Nessuno.
- Eppure suo fratello era assessore nella giunta Bonanni.. possibile che lei non avesse nessun contatto con il sindaco?
- Signor commissario, della politica cerco di occuparmi il meno possibile. Sono un lavoratore. La politica la lascio a chi di dovere. Commissario – riprese l’ Arletti – ho l’ impressione che il mio invito si stia trasformato in un interrogatorio. Lasciamo da parte queste domande. Siamo tra uomini. E lei credo che lo sia. Ho chiesto di vederla anche per salvaguardare la sua posizione in città. Un commissario che accusa un uomo onesto, in mancanza di prove, rischia di veder compromessa la sua carriera.. non trova?
- Non si preoccupi della mia carriera, signor Arletti. Piuttosto si tenga a disposizione per le indagini.
Il commissario montò sulla sua vettura, lasciando dietro di sé un manto silenzioso di polvere. Scendendo dalla collina, non trovò nessuno di guardia al cancello. Il manovale sardo era andato via.
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Il corpo esanime del costruttore Vincenzo Arletti fu rinvenuto da un pescatore in una barca del porticciolo, impigliato in una rete da pesca. Le labbra erano tumide e viole, i capelli appiccati sulla fronte e le orecchie punteggiate da macchie scure. Il collo recava segni di strangolamento. Era seminudo. Senza camicia e i pantaloni laceri. Le edizioni serali del gazzettino locale e di alcuni quotidiani nazionali aprirono con la notizia della morte dell’ Arletti. In poco tempo affluirono in città giornalisti, televisioni; un esercito mediatico che mise sottosopra la cittadinanza, ancora incredula per quanto era accaduto. La morte dell’ Arletti gettò nello scompiglio indagini, ipotesi, sospetti fino al dissolvimento di ogni certezza. Il teorema messo appunto dal commissario di una possibile relazione tra gli Arletti e il sindaco al fine di favorire gli interessi della Kaber Costruction crollò davanti al primo tentativo di applicazione. Era una teoria sostenuta da congetture, non certo da prove. La verità che si palesava agli occhi del commissario era che lui e i suoi uomini brancolavano nel buio. Della morte dei fratelli Arletti si continuava a non sapere nulla. Il problema – ammise candidamente ad un collaboratore – è nel metodo che abbiamo applicato: troppe accuse dirette; avremmo dovuto lavorare i fianchi dei possibili colpevoli. Ed ecco il risultato: due omicidi e nessuna traccia. L’ amarezza del commissario celava anche un sottile velo di scoraggiamento. La sera prima del delitto fu fatto recapitare presso la sua abitazione un biglietto che diceva: le taglieremo le gambe. Soltanto adesso il commissario capiva il senso di quelle parole. Le gambe tagliate andavano intese nell’ ottica delle indagini che venivano irrimediabilmente compromesse, stroncate all’ origine. Il commissario dovette ricominciare da zero. Gli elementi su cui poteva reimpostare le indagini erano pochi: un rapporto sulla Kaber Costruction s.p.a., il versamento di quindici milioni destinato alla cassa comunale, l’ ultima conversazione con Vincenzo Arletti. Nel volgere di una settimana, il commissariato fu presidiato da un nutrito gruppo di giornalisti e cittadini che reclamavano una svolta nelle indagini. Per questo motivo, il commissario evitava di tornare a casa. Non gli andava di fornire spiegazioni in un momento in cui le ricerche erano ancora in alto mare. La sua compagnia più assidua era il distributore accanto alla scrivania che sfornava caffè a ripetizione. Le notti insonni si moltiplicarono e il nervosismo iniziava ad affiorare. Si era ormai a fine novembre e la vicenda drammatica di Cosimo e Vincenzo Arletti rimaneva avvolta nel mistero più fitto. Le ricerche congiunte di polizia e carabinieri portarono al ritrovamento dell’ arma che freddò l’ assessore: una pistola a canna corta di produzione cecoslovacca. Il rapporto balistico confermò che i colpi furono sparati dalla stessa arma che uccise Cosimo Arletti. Il dottor Altobelli che aveva curato la stesura della relazione aggiunse che i proiettili erano stati accuratamente modificati secondo una tecnica diffusa nell’ Europa dell’ est.
L’ appuntamento era per le nove. Il commissario fu avvisato da una telefonata anonima ricevuta nella sua abitazione in via dei Mille. La voce dall’ altro capo del telefono era rauca, con lunghe pause di silenzio nelle quali si udiva il lento fruscio della linea telefonica. Poche parole. Venga sabato alle nove commissario presso la cascina di Polecchio. Da solo. Ho importanti rivelazioni da farle. Il commissario riagganciò lentamente. Il 13 novembre era un sabato. In mattinata la pioggia aveva lasciato una sottile coltre di nebbia che si era adagiata per tutto il pomeriggio sulla città, alterando le linee sinuose dei suoi dintorni. La cascina di Polecchio si trovava al quarantesimo chilometro della strada provinciale. Allontanandosi per chilometri dalla città, il paesaggio divorato dai cantieri edili sfumava in una sottile barriera di fronde statuarie che costeggiavano la strada. La cascina occupava uno slargo rettangolare protetto da uno steccato diroccato. II commissario si diresse verso il casolare. Notò un bagliore di luce calda proveniente dal piano superiore. Entrò. Intorno, una coperta increspata di paglia dalla quale spuntava una scala. Il ripiano aveva due finestre dai vetri di carta e travi incrociate che reggevano il tetto. Imbracciò una lanterna che si trovava su una fila di sacchi di farina. La lanterna proiettò un fascio di luce in un angolo della soffitta. L’ uomo che attendeva il commissario penzolava da una corda stretta ad una delle travi. Il commissario accostò la luce della lanterna al volto dell’ uomo. Aveva il naso appuntito e una fronte larga e stempiata. Capelli scuri tirati all’ indietro. Indossava una camicia chiara su un pantalone grigio. La giacca era impigliata tra gli attrezzi. Il commissario frugò nelle tasche dove rinvenne dei documenti, tra cui un tesserino del Kgb, sigla dei servizi segreti sovietici. L’ uomo si chiamava Sergei Azunov, nato a Mosca il 12 aprile del 1926. Oltre al tesserino, l’ uomo aveva un biglietto di sola andata per il sud America. La scientifica rimosse il corpo di Sergei Azunov dalla cascina, dopo aver compiuto i consueti rilievi. Nella colluttazione l’ uomo aveva smarrito la tessera del partito e un bracciale con le proprie iniziali. L’ identità dell’ uomo fu tenuta nascosta agli organi di informazione. Il motivo era molto semplice: l’ uomo era morto per le informazioni che possedeva. E quell’ uomo era Sergei Azunov, uno degli azionisti della Kaber Costruction s.p.a. Il riserbo sull’ identità serviva alle indagini; e serviva ancor di più per evitare infuocate e velleitarie ricostruzioni giornalistiche. La cascina fu tenuta sotto stretta osservazione per alcuni giorni dalla polizia. Gli sforzi per condurre in porto le indagini si erano fatti asfissianti. L’ idea sulla quale stava lavorando il commissario era quella di poter dimostrare l’ esistenza di un legame tra la vittima Sergei Azunov, l’ arma che uccise l’ assessore Arletti e la Kaber Costruction s.p.a. Nel torbido mosaico che il commissario tentava di ricostruire, difettavano le tessere che riguardavano i fratelli Arletti. L’ unico tra i due che avrebbe potuto avere ( e certamente li ebbe) contatti con Sergei Azunov era Vincenzo Arletti che con la vittima faceva parte del gruppo degli azionisti della Kaber. Come si spiegava, però, che un agente segreto sovietico utilizzasse la stessa identità anche per i propri affari? Si trattava forse di una copertura? O di una pura ( ance se inspiegabile) coincidenza unita a un’ eccessiva sicurezza? Alla prova dei fatti il castello di domande progettato dal commissario, crollò senza colpo ferire. Quel sabato il commissario ritornò a casa. Vi mancava da una settimana, da quando era scoppiata l’ imponente attenzione mediatica verso il caso Vincenzo Arletti. Trovò l’ appartamento così come lo aveva lasciato, con il sigaro bruciacchiato sul davanzale e il bicchiere sporco di succo di frutta sul tavolo. Si gettò con tutti i vestiti sul letto, abbandonando le sue fibre molli alla stanchezza. Riassaporava dopo giorni, l’ odore morbido del materasso, il candore piumato del cuscino e la luce soffusa dell’ abatjour che illuminava il comodino. Il commissario si alzò con una voglia incontrollabile di fare una passeggiata in bicicletta. Non gli importava che la pista ciclabile fosse invasa dalle foglie. Voleva uscire. Respirare l’ odore del mare e dell’ autunno. La domenica prometteva bene. I nuvoloni umidi era stati spazzati da un sole vigoroso che illuminava i profili delle case. Quella giornata doveva essere speciale. Un giorno nel quale lasciarsi alle spalle indagini, morti ammazzati, utopici scandali internazionali per assaporare una giornata libera da tarli e problemi. Riordinò la stanza. Si preparò per bene e sfoderò la bici riposta nel sottoscala del palazzo. La domenica trascorse velata da un sottile silenzio che avvolgeva i rami argentati della pineta, dove il commissario aveva deciso di fermarsi con la propria bicicletta. Mangiò un panino. Percorse un breve sentiero; si sdraiò contro la parete ruvida di una quercia e ammirò la composizione meravigliosa di luci e colori che quel boschetto esprimeva in tutta la sua intima e travolgente armonia. Raccolse dei funghi. Gli ricordavano un passato lontano, al quale non sentiva più di appartenere. Era un uomo diverso adesso: logico, riservato. Da giovane era stato un poeta dilettante; componeva versi ispirati al gorgoglio dell’ acqua, a una rosa appassita, al volto indolenzito di un vecchio passante. Leggeva romanzi, poesie, saggi. La creatività di pensatori e poeti lo introduceva in un mondo effimero ma tremendamente affascinante. La professione di commissario lo apriva, al contrario, a un mondo parallelo ma più vicino alla realtà: un mondo grigio, stanco, abitudinario, corrotto. Leggeva da anni solo rapporti, confessioni, giornali rimpinzati di casi di cronaca e morti di ogni genere. Si interessava vagamente di politica. Da giovane era stato un militante in uno dei circoli del partito di maggioranza. Poi, le solite divergenze tanto da decidere di abbandonare la vita politica. Non dimenticava, però, i suoi doveri di cittadino: seguiva i comizi di piazza, la tribuna politica e naturalmente esercitava il suo diritto al voto. Il commissario non era un conformista. Una banderuola da issare a favore del vento più propizio. Nonostante le debolezze dovute alla sua tempra, sapeva essere leale e coerente. Un crocchio di persone si trovava davanti al palazzo dove abitava il commissario. Parlottavano e a turni alterni si scambiavano delle pacche sulle spalle. Uno di loro, un giovane sulla trentina con dei baffi neri alla sudamericana ben tenuti, aveva l’ aria di essere un manovale; di quelli che si potevano vedere presso i cantieri degli Arletti. Con i suoi lineamenti abbronzati e i capelli corti e lanosi. Il commissario non badò al gruppo e piegò verso il portone del palazzo. Ripose la bicicletta. Ma non raggiunse subito l’ appartamento. Si sedette su un gradino della scalinata. I polsi tenuti incrociati tra le ginocchia. Accennò il motivo di una canzone americana, fischiettandolo. Con lo sguardo, intanto, perlustrava la guardiola incustodita del portiere presidiata da due barboncini scodinzolanti; le vetrate scolorite del palazzo deviavano i raggi del sole pomeridiano sulle facciate dell’ ascensore. Salendo le scale, il commissario incrociò il generale Sciarrimanico, vestito di un bel completo blu accompagnato dalla moglie, la signora Rosa, una donna sulla cinquantina, sopracciglia folte e rughe affioranti che non compromettevano un aspetto, nel suo complesso, ancora gradevole. Dall’ abbaino antistante l’appartamento del commissario, si intravedeva uno spicchio della città brulicante di un silenzio surreale. Fu l’ ultima immagine che il commissario vide. La chiave scivolò ruvida nel pertugio arrugginito della serratura, producendo uno scatto repentino. Una voce gelò il commissario sulla soglia. In una breve frazione di tempo il commissario cadde trivellato di colpi.