FUORI STRADA – Rubrica di approfondimento della piccola e media editoria “extra-capitolina”: Transeuropa –Massa
Recensione di Eleonora Rossi
Ferma e in piedi davanti alla scalinata monumentale di un ex cinema di Parigi ricco di egizianerie, una ragazza dai capelli (da poco) tinti di un biondo-bianco pare avere un’aria disorientata.
È una «Cleopatra in negativo» sovrastata dalla sfinge che fa da guardia silenziosa all’entrata. Lunare, con un’aria assente e astratta è la donna delle somiglianze selvagge e incarna perfettamente l’archetipo della bionda vaga e misteriosa di Hitchcock: ricorda Kim Novak, Grace Kelly o Tippi Hedren «quando il panico cominciava ad assalirle, un po’ scarmigliate, un po’ affannate».
La ragazza si chiama Esme, un nome che «era il risultato di un incrocio mal riuscito tra il suo nome di nascita (Esma) e la sua versione francesizzata (Esmé) o romanzesca (con amore o e squallore)». È «un nome da figura di stile» che fa venire in mente la parola chiasmo («dal greco khiazein, disporre a forma di x: figura di simmetria in cui a due elementi linguistici di qualunque natura x e y succede la loro inversione: da cui xyyx»). Esme ha ventidue o ventitré anni e inizia la ricerca della sorella Ariana – scomparsa misteriosamente – in quel medesimo luogo che fa da sfondo a una sua foto: «Una foto la ritrae nell’atto di baciare sul tartufo una delle sfingi di pietra, sulla scalinata del Londra-Luxor. Indossa un vestito che, sulla foto, sembra nero ma deve essere blu. È da qualche tempo che nessuno l’ha più vista. Non è detto però che si debba farne un dramma».
Le due sorelle, bosniache di origine, avevano sei e otto anni quando furono le ultime a salire sull’ultimo volo partito da Sarajevo nel 1992 per scappare dalla guerra e dalla morte: erano dirette a Parigi, da uno zio sconosciuto ed «esiliato per modernismo e sulla base di un certo numero di malintesi», membro di un drappello di avanguardisti fanatici dell’astrattismo.
L’edificio in questione, che appare così legato alla storia delle ragazze, è il Londra-Luxor, simbolo imponente dello splendore architettonico degli anni Venti, un’epoca in cui era in voga il revival egizio e che aveva visto il trionfo di un certo gusto per l’esotico. All’inizio si chiamava solo Londra e dopo diverse vicissitudini, nel 1949 iniziò a chiamarsi Londra-Luxor: «Dunque è solo nel 1949 che il cinema diventa davvero un luogo astratto, non più un punto ma una distanza. Da allora, la storia dell’edificio è indissociabile da una storia di scarti». Visse fortune alterne e fu laboratorio di variegate attività (non sempre lecite). Dal 1994 fu scelto come punto di ritrovo della diaspora jugoslava e all’inizio del nuovo millennio «gli habitué sono sorprendentemente giovani. Hanno nomi per la maggior parte impronunciabili, a meno che non li abbiano cambiati, magari sposandosi. Sono in larga misura figli della diaspora […]. Questi ragazzi si sentono a loro agio quando sono fuori posto, appartengono a una geografia di fratture e di scarti».
Sebbene la scrittrice Jakuta Alikavazovic gli dedichi ampio spazio – il prologo (osservazioni sull’architettura dell’edificio) e il titolo originale francese del libro Le Londres-Louxor ne sono esempi – e sebbene la sua architettura, descritta in modo dettagliato e vivido, diventi imprescindibile e fondamentale per la struttura del libro, si tratta in realtà di un luogo inventato, il frutto dell’immaginazione dell’autrice: «Questo strano edificio neoegizio (raffazzonato, direbbero alcuni) ha per loro qualcosa di familiare: è una seconda casa, il che è molto triste se si considera che il Londra-Luxor non è un luogo reale ma una costruzione immaginaria, un’astrazione».
Con la sua storia lunga e controversa, un passato a tratti occulto e lacunoso fatto di millanterie e reticenze, tra le sue mura rimbalza ancora oggi l’eco di follie e segreti antichi, di strambe superstizioni e terribili leggende. Anche gli elementi architettonici che lo compongono contribuiscono ad alimentarne il mistero: la scalinata enigmatica con ogni gradino appena diverso dall’altro, i passaggi segreti, le porte nascoste, i piani sotterranei, i corridoi infiniti. Tutto questo e la mancanza quasi assoluta di finestre e vie di fuga fanno del Londra-Luxor una sorta di labirinto claustrofobico che paradossalmente diventa il rifugio ideale per un’umanità esule e sbalestrata che al suo interno ricerca protezione. Ci sono però specchi «così imponenti e sistemati così abilmente che nessuna giuntura è visibile e che diventa effettivamente impossibile distinguere la frontiera tra la forma reale e il suo riflesso». Tanto che si può dire che con le sue pareti scorrevoli, i paraventi e i grandi specchi «il piano superiore del Londra-Luxor era un monumento al disorientamento», uno spazio difficile da capire e da afferrare.
È una specie di non-luogo, uno spazio metafisico, questo cinema dismesso che «con il suo passato di fabbrica dei sogni, la sua rete di associazioni, distanze negate, lontananze che non erano politiche, ma poetiche, immateriali, rassicuranti» costituisce una «zona di frontiera» fuori dal tempo e collocata tra la verità e la finzione. Ogni cosa è diversa da come sembra, tutto puzza di messinscena e si percepisce una costante «contaminazione di artifici»: è la perfetta allegoria di quell’universo umano disorientato e sradicato degli esiliati bosniaci la cui esistenza è avvolta dall’oblio e dalla perdita delle origini, e che qui ritrovano la propria identità, ma frammentata e distorta. È su questo palcoscenico ideale che possono diventare altro da sé, che possono mettere in scena la propria impostura.
La stessa Esme è parte di una «mascherata letteraria» in cui lei, che non ha mai scritto due righe, impersona il ruolo di una scrittrice famosa e di talento, e sempre lei, così vaga e astratta, non è che il riflesso deformato della sorella che, in antinomia, è invece assente ma concreta, ingombrante, quasi, tanto da imporsi con arroganza: «Esme assomigliava ad Ariana e Ariana assomigliava ad Esme».
In questa galleria grottesca incontriamo altri strani personaggi: il Mimo Valaguz, un sessantenne messicano muto e perennemente ubriaco di mezcal, «un Chaplin mediterraneo, una specie di Sancho Panza affetto da mutismo»; Erol, presunto ventiquattrenne e imprenditore frenetico dedito ad attività economiche spericolate e strampalate; il Vicepresidente eterno nomade e «l’uomo della provvidenza», autorevole e allo stesso tempo sospettabile di loschi affari; le vecchie Zie, figure omeriche e fantasmi del passato che continuano a minacciare il presente; Anton, il critico letterario che ha rinunciato alla letteratura dopo averle dedicato l’intera vita. Anton è il compagno di avventure di Esme, e il suo completamento: «Lei si teneva la sua parrucca, lui si teneva i suoi stivali da cowboy – pari e patta. Sotto i loro travestimenti si riconoscevano».
Fuga in blu è il secondo romanzo di Alikavazovic (l’unico finora tradotto in Italia) ed è un libro raffinato e incantevole con pagine dense di suggestioni e che lasciano intuire a chi legge le diverse potenzialità della letteratura, le molteplici espressioni della scrittura.
È un libro che parte come un trattato di architettura, che si avvolge nelle atmosfere fosche e nella suspense di un thriller – la scomparsa di Ariana, il trafugamento di alcuni capolavori d’arte e di una particolare tonalità di blu –, che racconta di una storia d’amore, che si fa persino satira di un certo mondo culturale e letterario ma che rimane sempre immerso nell’ineffabile e opaca atmosfera di una fiaba noir. Anzi, di una fiaba tinta di un blu che è quasi nero, «[…] un blu intenso, oltremare, che persisteva sulla retina. […] Mi fece un effetto strano, quel blu, aveva corpo e presenza eppure era spirituale, immateriale, assente. […] Era il blu con cui Klein aveva immaginato l’intero universo e che aveva, per lo stesso impulso, depositato, sottratto, proibito. Era un paradosso».
Simultaneamente alla tessitura della trama, la scrittrice ha ideato un gioco letterario di tipo postmoderno che irretisce e poi ipnotizza il lettore con le proprietà mistificatrici della sua scrittura. Alikavazovic crea una specie di lanterna magica all’interno della quale proietta immagini evocative e seducenti, visioni impreziosite da svariate citazioni (esplicite, implicite o camuffate). Attraverso la lente del postmoderno, dunque, affronta temi come il rapporto tra realtà e letteratura e il concetto di letteratura come finzione; sviluppa con grazia e levità riflessioni sulla lingua e il linguaggio («una lingua nello stesso tempo emancipata e piena di debiti. E se ci fosse stato qualcuno a leggerla, allora la sua stessa lingua non le sarebbe più stata così familiare, ma estranea, leggermente squilibrata. Una lingua piena di lacune, di spazi bianchi e d’ellissi»), sulla memoria e l’oblio («Esme viveva in una democrazia assoluta del visibile e dell’invisibile. Non voleva niente dal passato – il passato non esisteva. La sua arte era l’assenza; solo lei, a rigor di logica, poteva essere percettibile. Le presenze troppo insistenti la disturbavano. Era a suo agio tra le lacune e le ombre»), tutti legati alla condizione dell’esilio, alla perdita delle origini e dell’identità.
E alla fine, l’artificio risulta riuscito perfettamente.
Nota sull’autore
Jakuta Alikavazovic è nata nel 1979 a Parigi, da padre montenegrino e madre bosniaca. Oltre a Le Londres-Louxor, il suo ultimo libro, e l’unico ad essere stato tradotto in italiano (Fuga in blu, Transeuropa, 2012), ha pubblicato nel 2006 una raccolta di racconti, Histoires contre nature, e nel 2007 il romanzo Corps volatils, che ha vinto il premio Goncourt du Premier Roman en 2008. Tutte le sue opere sono state pubblicate dalla casa editrice francese L’edition de l’Olivier.
Per approfondire:
Leggi l’intervista di Alice Volpi a a Jacuta Alikavazovic su Oblique
Leggi la recensione di Valentina Parisi sul Manifesto
Leggi la recensione di Giulia Zavagna su Flanerì
Fuga in blu - Jakuta Alikavazovic
traduzione di Alice Volpi
Transeuropa, 2012
pp 176, 13,50 euro