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Gregorio, uomo di mezz’età rimasto senza lavoro, soffre delle giornate prive d’impegni che si trova a dover trascorrere. Non volendosi rassegnare alla realtà drammatica che amici e parenti tentano di fargli cogliere, continuerà a lottare per riavere il proprio posto nella società.
Una trama, quella di “Fuorigioco - la metafora calcistica del titolo non è nemmeno troppo azzeccata -, che sembrerebbe apparentemente innocua, non fosse che il lungometraggio difetta di tutte le basi per rientrare nella definizione di prodotto cinematografico. Se infatti il profilo drammaturgico è manchevole di una spina dorsale che possa reggere i dialoghi che, tentando di avere sempre uno spessore letterario, sono semplicemente macchinosi nel proprio incedere, oltre ad avere la pretesa di affermare grandi verità che, ahinoi, sono invece constatazioni che da almeno un secolo a questa parte sono pane quotidiano – “l’Occidente è un cadavere e noi stiamo assistendo al funerale”; “l’India e la Cina sono il futuro”; “è il mercato a dettare legge”; etc. -. Tutto questo posizionato sulle spalle di un personaggio che, vista la sua posizione in ogni caso benestante, vive il suo essere parte funzionale della società e del mercato come unica possibilità d’acciuffare per i capelli il sogno della libertà - l’unica scelta interessante, questa di non mettere al centro la disperazione d’aver perso tutto, viene sommersa dalla valanga di difetti, narrativi e non, sempre presenti -.
Le note dolenti arrivano dal momento in cui i difetti descritti sopra passano in secondo piano dal momento in cui è necessario prendere atto di due fattori fondamentali: il primo riguarda la recitazione, quasi sempre su livelli amatoriali, che rende il film ancor meno fruibile; secondo, e non per importanza, il lato tecnico: partendo dal presupposto che le reflex sono macchine fotografiche di per sé non predisposte all’immagine cinematografica, se usate male, come in questo caso, il risultato è quantomeno disastroso - si vedano l’immagine continuamente sfarfallata o fuori-fuoco, le imbarazzanti scene biancastre e con l’audio distorto dei flashback , gli improbabili movimenti di macchina, etc. -. Verrebbe da chiedersi, essendo “Fuorigioco” un prodotto che non ha i presupposti per essere definito cinematografico, mentre altri di molto più alto livello restano fuori da ogni circuito distributivo, come abbia fatto a trovare una collocazione nelle sale. Antonio Romagnoli
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