Fuoriserie arrugginite e utilitarie giapponesi

Creato il 26 gennaio 2011 da Albino

Ieri parlavamo il sistema-Colosseo all’Italiana, mentre oggi come da copione passiamo al suo antigemello, ovvero il sistema-Zen. Senza perdere altro tempo, se permettete mi butterei gentilmente a capofitto ad analizzare il mondo del lavoro in Giappone.

Comincerei con la caratteristica che puo’ sembrare piu’ stramba di questo modello: forse non tutti sanno che in Giappone non si assume alla bisogna, come nel resto del mondo, ma si assume quasi solamente il primo di Aprile. Un occidentale quando sente questa cosa cade dalle nuvole e chiede subito: “ma… e se a un’azienda serve qualcuno in settembre?”. La risposta giapponese in questo caso e’ uno sguardo fisso nella tua direzione, senza sapere cosa dire. Dopo svariati secondi, o ti dicono “non lo so”, o ti dicono “dipende” e chiudono li’ il discorso, oppure ti chiedono “perche’ mai dovrebbero averne bisogno in altri mesi?”, per la serie wrong input, please rephrase your question.

Ci vuole del tempo per capire il motivo di questa cosa, e bisogna dire che noi italiani quando la sentiamo abbiamo la tendenza a fare gli arroganti, a dire che e’ una cosa stupida, un altro dei nonsense giapponesi. Invece, col tempo, uno mette a posto tutti i tasselli del puzzle e capisce, fino al punto in cui persino quell’assurdo esame di ammissione di cui parlavamo due post fa arriva ad avere un senso.

Il succo della questione e’ che in Italia con molta ipocrisia mettiamo a parole la persona al centro della societa’, mentre invece le regole di mercato ci impongono di mettere le aziende, mentre qui in Giappone invece hanno abbandonato l’ipocrisia e le belle parole e hanno fatto outing sin dal dopoguerra: dicono, le aziende ci danno il pane, quindi mettiamo le aziende al centro della societa’; il singolo si adatti o s’arrangi.

Ecco come funziona. Le aziende giapponesi pianificano un livello di crescita a 5, 10, 15 anni. Ecco perche’ qui ci sono tutte queste mega-aziende, mentre le grandi industrie italiane si contano sulle dita della mano di un monco e sono flagellate da vari nepotismi, corruzioni ecc. (da ex dipendente di quel grande gruppo che comincia con Fin- e finisce con -anica posso assicurarvi che vengono assunti piu’ figli di- e nipoti di- e mogli di- nelle succursali italiane delle aziende del gruppo di quanto si faccia nel pubblico, dove almeno un minimo di concorso s’ha da fare per legge, e dove ci sono bene o male i riflettori della stampa).

In Giappone invece si pianifica la crescita, e seguendo quel piano a lungo termine (cosa difficilissima da fare per noi cazzoni dello stivale) si regolano anche le assunzioni, legate agli obiettivi e non gia’ alle condizioni del mercato come facciamo noi che assumiamo a spanne, al bisogno, magari in precariato perche’ non si sa mai se mi servi domani.

Ecco risolto il primo mistero, ecco perche’ si assume in aprile: e’ l’inizio dell’anno fiscale, io azienda giappa ho il mio piano a 5 anni, so che quest’anno mi servono 50 nuovi dipendenti in produzione, 100 ingegneri, 20 all’ufficio acquisti, eccetera. E via, semplice e matematico: in Giappone non si pensa all’oggi come noi, si guarda avanti a lustri, a decenni.

Secondo punto che noi occidentali non capiamo: i giapponesi di regola non si possono licenziare, non possono cambiare lavoro. Nel senso che di solito una persona ha una sola cartuccia per far carriera, e la puo’ sparare quando si laurea. In quel caso uno che esce dall’uni di serie A sa gia’ che (sparo numeri a caso) a 40 anni diventera’ capoufficio, a 48 dirigente, a 53 direttore, se e’ di serie F sa gia’ che diventera’ capoufficio a 46 anni, dirigente poco prima della pensione, direttore giammai. Direte: e se uno cambia lavoro? Lo puo’ cambiare, ma di regola deve rinunciare al contratto a tempo indeterminato, agli scatti di carriera. Questo e’ l’impianto generale, ma naturalmente la cosa e’ piu’ flessibile di come ve la racconto, e comunque ci sono svariate eccezioni alla regola, dipendenti dalla persona, dall’azienda di provenienza e di arrivo, da quanto tradizionale o quanto grande e’ l’azienda di arrivo, eccetera. In genere pero’, la persona e’ come una casalinga in coda col numero in mano dal macellaio: aspetta il suo turno con pazienza, e se cambia macellaio ovviamente riparte dal fondo della fila.

Terzo pezzo del puzzle che andiamo ad incastrare: le universita’. Ecco perche’ l’universita’ e’ cosi’: perche’ non e’ a misura di studente, bensi’ a misura d’azienda. L’universita’ controlla in maniera rigorosa il flusso degli studenti tramite l’esame d’ingresso, dopodiche’ ti insegna quelle quattro acche ma si guarda bene dall’essere veramente selettiva, perche’ la cosa principale che devi imparare li’ e’ che si e’ tutti uguali di fronte all’azienda, che essere piu’ bravo ti premia ma non e’ fondamentale, mentre ti premia molto di piu’ il rispetto delle regole, l’uniformarsi agli altri, essere un tutt’uno perche’ l’unione fa la forza. E poi perche’ lasciare dei fuori corso parcheggiati incepperebbe il sistema di flusso alle aziende, non ha senso per loro.

Gia’ da un anno prima della laurea, l’universita’ e le aziende iniziano ad organizzare eventi per la selezione del personale; in quel caso tutti gli studenti dell’ultimo anno si presentano a questi immensi meeting con tutti i banchetti delle aziende, sono tutti vestiti uguali (in abito nero i maschi, tailleur nero le femmine, capelli neri, ordinati. Io stesso conosco una giappina bionda che si e’ fatta il colore nero per un job fair, poi e’ tornata bionda e poi si e’ rifatta nera dopo due mesi per un altro job event).

Ovviamente in questi casi sembrano tutti uguali, ma non lo sono: alcuni vengono da universita’ di serie A, altri di B, ecc. Il colloquio si riduce spesso ad un video che mostrano a gruppi di studenti, dopodiche’ se ti piace l’azienda vuoi lasciare il modulo con l’applicazione. Accomodati pure, io azienda ti richiamero’ per assumerti se vieni dall’universita’ che dico io e se hai studiato le materie che servono a me. E badate: questi incontri sono fatti l’anno prima di laurearsi, per cui molti studenti dell’ultimo anno sanno gia’ in quale azienda andranno a lavorare ancora prima di finire l’universita’.

Morale della favola: mentre l’italiano vede un monte Everest a forma di punto interrogativo, il giovane giapponese una volta passato lo scoglio dell’esame di ammissione all’universita’ fa parte del sistema, e vede di fronte a lui un bel sentiero battuto, dal quale pero’ non puo’ uscire.

Quarto punto, e qui rispondiamo alla domanda sulla Sony. Sony non assume gli zucconi: semplicemente, alla societa’ aziendocentrica importa fino a un certo punto quello che hai imparato all’universita’. Il motivo e’ ovvio: l’azienda sa che ti assume a vent’anni e che resterai con loro per altri quaranta, percio’ ha tutto il tempo che vuole per insegnarti a fare quello che vuole lei, step by step. Il primo aprile di ogni anno i giovani neolaureati entrano in azienda e li vedi per un anno intero girare da un ufficio all’altro nel loro tailleur o abito nero. Imparano lavorando, fanno costantemente dei corsi in azienda, sono formati a fare quello che e’ stato deciso per loro. Si inchinano, dicono grazie, portano rispetto, imparano le parole chiave del mondo del lavoro (il famigerato keigo), e la loro vita lavorativa puo’ cominciare. Un giorno, quando saranno vecchi bavosi con la mania per le ragazzine come il nostro esimio presidente del consiglio, sapranno tutti i segreti dell’azienda, e saranno loro a pianificare i prossimi 5, 10, 15 anni della compagnia. Persone fedeli, indottrinate da chi come loro si e’ legato in maniera monogama ad una sola compagnia per la vita.

Ecco perche’, cari lettori, noi in Italia abbiamo la Fiat in crisi, la Lancia che vende due auto all’anno, l’Alfa che galleggia solo per gli afficionados alfisti, la Ferrari che e’ tutto sommato un’aziendina, mentre qui hanno ‘sti colossi immensi tipo Toyota, Suzuki, Honda, Mitsubishi, Nissan e via dicendo, compagnie che producono dallo stuzzicadenti allo space shuttle.

Anzi. Se vogliamo continuare il paragone automobilistico, si puo’ dire che il sistema italiano e’ come una bellissima auto sportiva degli anni ’60, una vecchia gloria che ha passato gli anni migliori. Smarmittata, scarburata, piena di problemi, con l’aria condizionata rotta, qualche chiazza di ruggine sul portellone e di olio che cola da sotto. Sono piu’ le volte che siamo dal meccanico di quelle in cui possiamo tirare i duecento all’ora… la macchina certo e’ uno spettacolo da vedere, la gente si ferma per strada a farci le foto, ma cazzo che bello sarebbe se funzionasse a dovere: non ce ne sarebbe per nessuno.

Il Giappone invece e’ come una piccola utilitaria giapponese: anonima, squadrata, grigio metallizzato, interni in tessuto, anche un po’ bruttina da vedere, ma fila perfetta come un orologio svizzero, non si ferma mai, e’ piena zeppa di optional. Certo, fara’ i centoventi all’ora di punta, pero’ bisogna dire che li fa sempre, costanti, consuma poco, e’ indistruttibile, un piacere da guidare.

In conclusione di questo argomento lunghissimo, ci resta solo una cosa da dire. Non sta a noi giudicare quale sia il migliore tra il sistema-Colosseo e il sistema-Zen, tra l’arena dove si combatte per la vita con tutti i mezzi o il giardino dove non c’e’ una foglia che non sia potata in maniera perfetta. Lo ripetiamo: non sta a noi giudicare; in fondo sono due sistemi che hanno dimostrato in entrambi i casi di essere a loro modo vincenti ma di avere molti limiti, due sistemi che stanno iniziando a mostrare grandi limiti soprattutto ora che il mondo va verso la globalizzazione; ma due sistemi che nel bene o nel male hanno portato entrambe le nostre nazioni al top delle economie mondiali. Ma se permettete un parere, credo che una cosa in comune tra Italia e Giappone ci sia: l’impressione che in entrambi i posti la gente non viva poi cosi’ bene come sembra.

Che sia il caso di passare a una bella Audi?



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