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Furono gli scrittori a portarmi via

Creato il 21 aprile 2010 da Pupidizuccaro

Furono gli scrittori a portarmi viaSì me ne andai. Lo feci prima ancora di compiere vent’anni. Furono gli scrittori a portarmi via. London, Dreiser, Sherwood Anderson, Thomas Wolfe, Hemingway, Fitzgerald, Silone, Hamsun, Steimbeck. In trappola, barricato contro il buio e la solitudine della valle, me ne stavo lì coi libri della biblioteca pubblica impilati sul tavolo da cucina, solo, ad ascoltare il richiamo della voce dei libri, con la brama di altre città.

Ero ormai sazio di biliardo, di poker, di stronzate dette con un boccale di birra in mano, di scappatelle con i compagni e le ragazze nel fitto di frutteti isolati, a smanacciare goffamente gonne e mutande, a smanacciare invano. Le donne erano belle ma esigenti, e uno se la prende facilmente a diciannove anni; pensa che le donne siano dolci e remissive ma poi si accorge che sono gatti di strada; e allora trova comprensione tra le baldracche, che sono meno bugiarde, e se uno ha fortuna impara pure a leggere.

Il mio vecchio, quel figlio di puttana, caracollando in casa con quel suo grugno fatto a vino, urla accendi la luce, va’ a letto, che diavolo ti è successo, e i libri erano un guaio e la mia mania allarmante, e poi quasi non ero più suo figlio. Trovati un lavoro, sbraitava, fa’ qualcosa di questa tua vita. Aveva ragione. Doveva. Tutti erano d’accordo con lui. Pure i ragazzi della sala biliardi avevano notato un cambiamento. Non ci intendevamo più.

Mi trovai un lavoro. Andai a raccoglier mandorle. Andai a raccogliere uva. Lavorai nei campi di luppolo. Vennero le piogge, e i campi fradici divennero impraticabili, grazie a Dio, e così me ne tornai in cucina, a leggere i miei dolci libri. Pensavano che fossi ammalato: avevo gli occhi rossi, spiritati, e mia madre sentendomi la fronte: Stai bene, Henry? Forse hai preso l’influenza.

Dovrebbe farsi visitare da un medico, diceva mio padre. Che gli trovi che cos’è che non va. Che vuoi fartene della vita? Chi si prenderà cura di tua madre quando io me ne sarò andato? Non c’è nessuno che ti paghi per legger libri. Esci di lì! C’è la guerra. Entra nell’esercito. Va’ a San Francisco. Imbarcati. Trova di che mantenerti. Fa’ l’uomo. Sai che cos’è un uomo? Un uomo lavora. Suda. Scava. Martella. Costruisce. Prende un po’ di dollari e li mette da parte. Senti chi parla, ironizzavo io.

Non c’era risposta per quel dago da trivio, quel wop abruzzese di umili origini, per quel bruto di un bifolco, quel ruzzolamerda, quel leccaculo. Che ne sapeva lui? Che aveva letto?

Perché io ero a posto. Mi preparavo a qualcosa. Un sentimento nuovo del mondo al di là di San Elmo e della televisione mi scuoteva, mi esaltava, pompava la mia adrenalina. Perché non c’ero arrivato prima? Dove me n’ero rimasto per tutti quegli anni? A cercare di trasportare un secchio,a impastare malta? Chi era che m’aveva bevuto il cervello, che aveva tenuto i libri fuori dalla mia portata, ignorandoli, disprezzandoli? Il mio vecchio. La sua ignoranza, la frenesia del vivere sotto il suo tetto, quel suo blaterare, quelle minacce, e l’avarizia, la prepotenza, il vizio del gioco. Natale senza soldi. Per la maturità un vestito di tela. Debiti, debiti. Smettemmo di parlarci. Un giorno ci incrociammo mentre attraversavamo le rotaie. Lui proseguì per qualche passo, si fermò e attaccò a ridere. Fingeva di leggere un libro e rideva. Non era divertente. Piuttosto mi mandava in bestia, generava in me disprezzo e smarrimento.

Poi accadde. Una sera, mentre la pioggia batteva sul tetto spiovente della cucina, un grande spirito scivolò per sempre nella mia vita. Reggevo il suo libro tra le mani e tremavo mentre mi parlava dell’uomo e del mondo, d’amore e di saggezza, di delitto e di castigo, e capii che non sarei mai più stato lo stesso. Il suo nome era Fëdor Michailovič Dostoevskij. Ne sapeva più lui di padri e figli di qualsiasi uomo al mondo, e così di fratelli e sorelle, di preti e mascalzoni, di colpa e innocenza. Dostoevskij mi cambiò. L’idiota, I demoni, I fratelli Karamazov, Il giocatore. Mi rivoltò come un guanto. Capii che potevo respirare, potevo vedere orizzonti invisibili. L’odio per mio padre si sciolse. Amavo mio padre, povero disgraziato sofferente e perseguitato. Amavo anche mia madre, e tutta la famiglia. Era tempo di diventare uomo, di lasciare San Elmo e andarmene nel mondo. Volevo pensare e sentirmi come Dostoevskij. Volevo scrivere.

La settimana prima di lasciare la città l’ufficio di leva mi convocò a Sacramento per la visita. Fui contento di andarci. Qualcun altro al posto mio poteva decidere per me. Fui riformato. Avevo l’asma. Infiammazione bronchiale.

- Non è niente. C’è l’ho sempre avuta.

- Fatti vedere dal tuo medico.

Ricavai le informazioni che mi servivano da un libro di medicina della biblioteca civica. L’asma era fatale? Poteva esserlo. E così sia. Dostoevskij era epilettico, io avevo l’asma. Per poter scrivere bene, un uomo deve avere una indisposizione fatale. Era l’unico modo per avere a che fare con la presenza della morte.

John Fante, La confraternita dell’uva, trad. Francesco Durante, Einaudi


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