Scritto e diretto da David Ayer (End of Watch-Tolleranza zero, 2012), Fury è un film a suo modo sorprendente, in quanto, pur rientrando nel genere delle pellicole di guerra, rispettandone gli archetipi essenziali, in particolare nella rappresentazione dei personaggi principali e del loro coinvolgimento emotivo nell’ambito delle vicende narrate, riesce comunque a delineare la rappresentazione di un conflitto, la II Guerra Mondiale nello specifico, al di fuori da qualsiasi logica propriamente umana, sottolineandone la sciagurata portata disumanizzante. Lo stesso eroismo portato all’estremo, trionfalistico emblema retorico di molti war movies americani, assume qui la pregna sembianza di una tragica inutilità e sembra abbracciare i contorni propri di un’espiazione penitenziale volta a mitigare un personale senso di colpa.
Mezzi meccanici (il carro armato Sherman denominato Fury) ed uomini sono accomunati dall’essere identificabili con un soprannome, evidenziando così come i vari plotoni possano costituire una sorta di gruppo familistico “alternativo”, del tutto avulso dalla consuetudine propria del vivere di ogni giorno.
Brad Pitt
Il rispetto di ferree regole ed un indispensabile cameratismo fanno certo la differenza nel garantire la sopravvivenza all’interno di un girone infernale dove “gli ideali sono pacifici, ma la storia è violenta”, come sostiene il sergente Don Wardaddy Collier (Brad Pitt), a capo di un drappello di uomini, fra le Forze Alleate all’attacco delle Germania nazista, che vede tra i suoi componenti Boyd Bible Swan (Shia LaBeouf), artigliere, Trini Gordo Garcia (Michael Peña), conducente, Grady Coon-Ass Travis (Jon Bernthal), addetto al caricamento delle munizioni, e un nuovo arrivato, che sostituirà il precedente carrista, deceduto nell’ultima battaglia. Si tratta del giovane ed inesperto Norman Ellison (Logan Lerman), del tutto privo di alcun addestramento specifico, dattilografia a parte, ma con il conflitto ormai agli sgoccioli (siamo nell’aprile del 1945) ed uomini e mezzi allo stremo non è il caso di andare troppo per il sottile.
Sarà compito di Wardaddy, che ha già sulle spalle almeno tre anni di guerra, fargli apprendere velocemente, attraverso uno stoico pragmatismo, quanto sia labile il confine fra Bene e Male quando la morte ti aspetta ogni giorno al varco …
Pitt, Shia LaBouef, Logan Lerman, Michael Peña, Jon Bernthal
Estremamente crudo e realista, del tutto esplicito, quasi documentaristico, nel far avvertire agli spettatori un senso di sudiciume, anche morale, insieme al netto sentore di una fine imminente, nello scempio dei corpi dilaniati dalle esplosioni o crivellati dai proiettili e nello sconvolgimento degli animi ormai orfani di qualsivoglia compassione, Fury traccia nel corso del suo iter narrativo una forte condanna alla guerra evidenziandone appunto ogni atrocità, a partire dallo “svezzamento” di Norman, che assume le caratteristiche di un empatico racconto di formazione. In virtù del suo personaggio, infatti, siamo costretti ad entrare anche noi nel campo di battaglia, trovandoci immediatamente confusi, visto l’ardua diversificazione fra vittime e carnefici che si viene a stagliare, dove tutto e tutti possono costituire un pericolo o un nemico da affrontare.
Dentro l’abitacolo dello Sherman, insolito e necessario nucleo abitativo, lo spirito di corpo, l’imposizione di un codice morale a proprio uso e consumo, tra la recita di un versetto della Bibbia ed improvvisati sermoni, una sinistra ironia e particolari forme d’affetto, diviene ben presto prassi quotidiana, tanto che tutto ciò possa palesarsi al di fuori di esso viene vissuto come qualcosa di straordinario ed insolito.
LaBeouf, Lerman, Pitt
E’ quanto si può notare nella bella sequenza dove vediamo “papà” Collier e il “figlio” Norman entrare in un’abitazione, dove incontrano due donne.
La tensione è palpabile, ci si aspetta, nella tragica ordinarietà dell’orrore, un atto violento a danno di quest’ultime, invece ha luogo una deviazione di stampo familiare, presto interrotta dall’arrivo dei commilitoni, che riporteranno ogni cosa nella sporca “logica” di stampo militaresco, annullando quel minimo di innocenza e genuinità che si era comunque manifestato, da sacrificare sull’altare di una presunta supremazia dei vincitori sui vinti, essendo del tutto lontana dalla loro visione delle cose l’idea di un comune destino di sconfitta al riguardo.
Non vi è alcuna vittoria, infatti, al di là dell’esito finale e delle medaglie appuntate, di fronte al degrado della connotazione umana.
Fury è avvalorato dall’interpretazione di un ottimo cast attoriale, nessuno escluso, anche se più che il granitico e allo stesso tempo dolente Collier/Pitt, un po’ John Wayne, un po’ Lee Marvin, a restarti impressa, almeno come personale sensazione, è soprattutto l’acerba crudezza espressa dal giovane Norman/Lerman nel perdere la propria innocenza e il relativo primigenio stupore di fronte ad ogni genere di nefandezze.
Tema dominante, l’amicizia virile che lega fra di loro ogni singolo componente della pattuglia, sentimento idoneo a far superare ogni contrasto caratteriale o di comportamento di fronte alle avversità.
Logan Lerman
Il film può fregiarsi inoltre di una compiuta sinergia fra i vari elementi tecnici: oltre alla regia di Ayer, anche se sarebbe auspicabile una visualizzazione complessiva di stampo meno derivativo, per quanto appaia mutuata attraverso una concreta personalizzazione, si rivelano certo esemplari il montaggio (Dody Dorn e Jay Cassidy), che riesce a far intuire lo svolgimento narrativo con modalità lineari, nel corso delle 24 ore che si succedono sullo schermo (dal tramonto all’alba), la fotografia, spenta, minimalista, di Roman Vasyanov (si fa più viva nella scena “casalinga”, ad evidenziare il descritto contrasto fra ordinario e straordinario), le essenziali scenografie di Andrew Menzies, il commento sonoro (Steven Price), il quale, oltre a miscelare diverse sonorità, fa anche un uso realistico del coro, spesso sottolineando la correlazione personaggi-ambiente.
La battaglia finale, che di primo acchito potrebbe rivelarsi il trionfo della più becera retorica, riprendendo quanto scritto ad inizio articolo, rappresenta invece, almeno a parer mio, il degno suggello dell’assunto proprio della narrazione, far risaltare l’intima disfatta della personale dimensione di individuo, annichilito e sconvolto da uno sconvolgente senso d’impotenza nel non riuscire a fornire alcun significato alle proprie azioni che non sia rappresentato dalla drammaticità ed assurdità di quanto messo in atto dall’uomo contro se stesso.