E’ abbastanza noto che l’identità di un attore passa anche dal suo aspetto e da come questo rimanga tale dentro e fuori di un film. Se pensiamo a Tom Cruise, egli fondamentalmente in tutti questi anni ci ha abituati a vederlo in due versioni di se, quella in stile “Top Gun” con capello corto e curato, oppure quella “made for action” con capello lungo che infonde in lui un’aurea macista ed allo stesso tempo romantica. In linea di massima anche nelle apparizioni in pubblico egli appare sempre con queste due tipologie di look. Ora per fare un altro esempio di quanto appena esposto possiamo prendere in esame un altro attore amato e odiato a periodi alterni un po’ da tutti: Nicolas Cage. Il nipote di Coppola pur non godendo di una folta capigliatura ha anch’esso due versioni di se, e queste lo vedono con i capelli corti oppure lunghi indipendentemente dalla presenza di un toupe che ne diminuisca la stempiatura. Questa due esempi servono ad introdurre uno dei concetti base di “Fury”, ossia di quanto sia affascinante Brad Pitt anche con cicatrici ovunque e improponibile taglio rockabilly. La pellicola di David Ayer (da non confondere con il collega David Hayter) a parte far sembrare “Salvate il soldato Ryan” di Spielberg un film anti-patriottico, recupera la regola base del cappello di “Over the Top” per far capire allo spettatore quando si sta per inscenare il dramma, o quando questo lascia lo spazio al cameratismo e all’esaltazione dell’eroe americano.
Vi ricordate questi momenti?Se nel film con Stallone il suo personaggio portava il frontino del cappello dietro la nuca per trovare forza e concentrazione necessaria così da per vincere a braccio di ferro, il buon David Ayer, qui anche sceneggiatore quindi se c’è un colpevole per quanto uno si ritrova a guardare questo è solamente lui, sostituisce il berretto con un elmetto e descrive, grazie all’uso che ne fa il personaggio di Brad Pitt (wardaddy per gli amici), le due anime drammatiche del film. Possiamo quindi affermare che quando l’elmetto viende indossato ci verranno messe difronte situazioni disperate che per quanto ostiche troveranno una risoluzione tutto sommato positiva. Al contrario quando il nostro caro wardaddy non indossa il copricapo metallico, sfoggiando l’incredibile tenuta della brillantina che non scompone il taglio di capelli nemmeno quando una granata scoppia al suo fianco, la situazione disperata prevede una risoluzione comunque drammatica (qualcuno muore insomma).
“Fury” più che un film sulla guerra e sui soldati, è l’esaltazione dell’eroe, di quella persona capace di fare la differenza in qualsiasi situazione e che è ovviamente affiancata da compagni che non possono far altro se non sottostare a tale figura, sfoggiando la loro unica utilità nel massimo splendore possibile, ossia morire per il capo. Brad Pitt per quanto attore dalle note capacità non è in grado di sostenere l’accozzaglia di luoghi comuni di cui è infarcita la sceneggiatura (ma regala comunque un’ottima prova attoriale), ad aiutarlo nel fallire nell’impresa di salvare almeno il salvabile ci pensano i personaggi secondari che quando non parlano come fossero usciti da un film di guerra con Lee Marvin o John Wayne, fanno di tutto per sottolineare il fatto che sono macchiette inutilmente stereotipate. A mettere però una pietra tombale sull’intera pellicola arriva proprio la scialba regia di David Ayer che alle prese con un film dall’estetica e narrazione classica (ricordiamo che “End of Watch” era ben distante da questo suo ultimo lavoro), si ritrova a non saper come gestire il tutto con un piglio personale, decidendo quindi di annullarsi tra le immagini che crea omaggiando il passato dei film bellici di quarant’anni fa. “Fury” è però anche il racconto di formazione di un ragazzo che per necessità o errori organizzativi si ritrova nella squadra di wardaddy e vivrà assieme a loro gli ultimi giorni della guerra contro i nazisti. Approfondire questo aspetto del film, l’unico motivo per cui comunque varrebbe la pena vederlo (anche se pure in questo caso ci sono momenti al limite dell’imbarazzo per originalità di esposizione), sarebbe rovinare l’unica nota positiva della pellicola che nemmeno nel finale riesce a regalare qualche sorpresa, se non quella legata agli incredibili capelli di Brad “wardaddy” Pitt, che non vedevamo così belli dai tempi di “Sette anni in Tibet”.