Ritratto Gabriele Barrio
Gabriele Barrio, contrariamente a tanti altri dotti ed eruditi del suo tempo, proveniva non dalle fila del clero regolare, ma da quello secolare; infatti, fu un sacerdote, nato a Francica, un paese in provincia di Catanzaro, nel 1510. Come ci informa il famoso erudito Girolamo Tiraboschi, nella sua monumentale Storia della letteratura italiana, scritta tra il 1772 e il 1781, il fatto che Barrio usasse firmare le sue opere con il nome Francicanus “ha dato occasione a parecchi scrittori di crederlo francescano”[1].
Barrio, ricalcando le orme di tanti uomini di cultura del Cinquecento, per uscire fuori dai ristretti limiti della piccola provincia, dovette mettersi sotto la protezione di un principe ed entrare “nell’orbita della principesca famiglia dei Sanseverino”[2], che proprio in quegli anni viveva lo smembramento del proprio feudo, dopo aver dominato per secoli su quasi tutta la provincia di Cosenza. Dopo i Sanseverino, Barrio si trasferì per molti anni a Roma, dove ebbe occasione di conoscere “vari eruditi”, tra i quali vi furono i “dotti Cardinali Guglielmo Sirleto, e Giulio Antonio Santoro”, che onorarono il sacerdore “d’una particolare amicizia, e patrocinio”[3]. Il cardinale Sirleto, anch’egli calabrese, e di qualche anno più anziano di Barrio, ricopriva a Roma degli incarichi importanti, essendo custode della Biblioteca Vaticana, e, in seguito, protonotario apostolico. Questi si sarà molto prodigato per aiutare il sacerdote a compiere le sue ricerche erudite. Soltanto che forse questo “patrocinio” si è spinto un po’ oltre se ha indotto alcuni studiosi ad avanzare addirittura il sospetto che l’opera più famosa del Barrio, De Antiquitate et situ Calabriae, fosse da attribuire al cardinale Sirleto o al Santoro. Anche l’abate Giovan Battista Pacichelli, parlando nel suo secondo viaggio compiuto nelle terre calabre dell’opera di Padre Giovanni Fiore, accredita questa voce, scrivendo che a quell’opera Padre Fiore finì “con l’aggiugner non poco al Barrio, al Marafioti, trascrivendo il secondo, e celando il primo à parer de’ Savi, il gran nome dell’accennato dottissimo Cardinale Sirleto Nobile di Stilo”[4].
Che l’opera sia, invece, da attribuire al Barrio non ci sono dubbi, altrimenti come osserva Soria, egli avrebbe dovuto letteralmente sottrarre il manoscritto a uno dei due cardinali, e “non è credibile, che avendola pubblicata sotto gli occhi de’ proprij autori, nessuno di questi se n’avvedesse, e non gridasse subito al ladro”[5]. D’altra parte a dissipare ogni sospetto, seppur ve ne fosse bisogno, c’è la lettera, citata dal Tiraboschi, che Barrio scrisse nel 1559 da Roma a Pier Vettori. In questa lettera, l’autore si raccomandava al suo amico affinché pregasse il Torrentino di stampare in Firenze il suo libro”, aggiungendo ch’egli stesso voleva essere presente a Firenze per la stampa, e perciò vorrebbe “ivi qualche impiego scolastico, ma amerebbe averlo tra’ religiosi, che tra’ secolari”[6].
Egli aveva, dunque, completa opera già una decina d’anni prima della sua effettiva pubblicazione, ma Barrio per la quantità di refusi che conteneva non ne era soddisfatto, se è vero, come ci attesta Soria, che “mentre attendeva a postillarla per farne una nuova e più corretta edizione, fu verso il 1575 rapito importunamente da morte”[7]. Questa seconda versione manoscritta, emendata ed accresciuta, del De Antiquitate fu ritrovata dal letterato cosentino e vescovo di Lacedonia, Tomaso Aceti, il quale si impegnò a pubblicarla a Roma nel 1737, col titolo In Gabrielis Barii. De antiquitae et situ Calabriae libro V, nunc primum ex autographo resitutos... prolegomena, additiones, et notae, “aggiungendovi, distinte mediante accorgimenti tipografici, sue annotazioni nonché quelle del calabrese Sertorio Quattromani, contemporaneo del Barrio, del quale l’Aceti aveva pure ritrovato un lavoro manoscritto”[8].
Questa circostanza è molto importante, in quanto la prima edizione del De Antiquitate a circolare, di cui esistono anche stampe seicentine, fu quella maggiormente usata e conosciuta da “coloro che scrissero nei secoli XVII e XVIII sulle antichità della Calabria”[9]. In altri termini, cronisti quali Marafioti, Padre Fiore, Mazzella, o Pacichelli, che hanno compilato descrizioni sul Regno di Napoli hanno tutti attinto alla prima edizione. La fama che immediatamente circondò l’opera di Barrio fu davvero grande. Quando ancora non s’era diffusa la versione dell’Aceti, il cronista Giombattista Bernardino Tafuri scriveva nel 1719 che il De Antiquitate “è stata sempre riputata per una delle maggiori Opere, e delle più dotte, che uscite fossero alla pubblica luce, tra tante, che sin’ora ne sono state scritte, per illustrare quella per altro chiara, e rinomata Provincia”[10]. Questo lusinghiero giudizio del Tafuri sarà ampiamente confermato e reiterato in seguito.
L’opera del Barrio s’inseriva in quella tendenza storiografica che cominciava a prevalere in Europa dietro la nascita delle nazioni. Le opere storiche di questo periodo cercavano “di rintracciare il patrimonio di tradizioni, di ideali e di imprese che costituiscono la prova della consistenza civile e della continuità propria ed originale, di ciascun popolo”[11]; e, attraverso queste dotte ricerche, si riscoprono le proprie identità regionali o nazionali. Quando anche nel nostro Meridione si comincia ad avvertire l’unità e la continuità del Regno di Napoli si forma anche la coscienza di indagare e raccogliere la memoria storica di ciascuna realtà locale: “E Napoli ebbe i suoi storici eruditi e passionali (i due concetti non si escludono; anzi!) come il Costanzo e Camillo Porzio cui non difettò ingegno critico e acutezza di giudizio politico; il Tarcagnota, il Costo, Capaccio, il Barrio sono nomi di gloria locali”[12].
Barrio non compilò la sua opera come un dizionario, le cui voci si susseguono in ordine alfabetico, come sarebbe poi invalso nelle altre opere locali. Il De antiquitate et situ Calabriae si divide, invece, in cinque libri distinti per argomenti: “Il primo in ventidue capitoli, secondo la divisione fatta dall’Aceti, tratta della Calabria in generale, particolarmente sotto l’aspetto storico: il penultimo capitolo di questo libro affronta il problema dei dialetti calabresi. Nei libri dal secondo al quinto, in complessivi ottantaquattro capitoli, si legge la descrizione particolareggiata della Calabria nei suoi aspetti fisici (coste, rilievi, idrografia), antropici (centri abitati e personaggi che, nati o vissuti in essi, li resero noti), economici (foreste, agricoltura, prodotti)”[13]. Per scrivere la suo opera, informa Soria, Barrio “impiegò moltissimi anni in viaggi e ricerche tanto in Calabria, quanto a Roma, per venir a capo di formarne compiutamente la corografia e la storia”[14]. La cosa più interessante è capire se Barrio, nel corso dei suoi viaggi di studio e di ricerche, raccogliesse notizie di prima mano o se si servisse prevalentemente di fonti già trattate da altri. A tal riguardo non ci sono prove attendibili, per il semplice fatto che il problema di trattare le fonti in modo scrupoloso cominciava fare appena i primi passi. Rimane il fatto che se vogliamo verificare quanto il sacerdote sia attendibile nella sua ricostruzione cronachistica il problema non può essere eluso. In ogni caso, che si tratti di notizie direttamente attinte dai documenti o di pure citazioni di fonti scritte occorre comunque verificare il grado di fedeltà con il quale Barrio trascriveva. Per comprendere questo problema è indispensabile risalire a quali modelli culturali egli faceva riferimento. Barrio, per merito della sua opera, è stato spesso paragonato a Strabone, a Plinio e a Pausania, e Soria aggiungeva che per “sua mercè può dirsi di quella regione quel che fu scritto altre volte della Grecia: nec sine nomine saxum”[15]. A Barrio un paragone del genere avrebbe fatto indubbiamente piacere. Essere paragonato ad alcuni scrittori della classicità era la più grande ambizione di Barrio. Tutti coloro che hanno scritto sul Nostro non hanno mancato di sottolineare la sua cultura classica. Infatti, egli prima di scrivere il De Antiquitate si fece conoscere e apprezzare per un trattatello in difesa della lingua latina: “L’autore, nel suo trattato Pro lingua latina, si dimostra estremamente appassionato per quella lingua, e nemico dichiarato della italiana o volgare, che, nel suo libro De Antiquitate, fa orribili imprecazioni contro chi osasse tradurlo in italiano”[16]. Sempre il Soria scrisse che Barrio “si rendè a forza di una continua applicazione così familiari gli autori latini, che divenne senz’avvedersene un perfetto loro esemplare”[17]. Non possiamo tacere il bellissimo elogio tessuto da Gabriele Pepe: “Forse il più colto, il più fornito di senso storico, comunque buon archeologo, dato i tempi, è il Barrio che scrisse De Antiquitate et situ Calabriae, nella quale si trova un accorato “planctus” sulla misera condizione della Calabria sotto le “arpie” baronali”[18].
Se è vero che Barrio, per raccogliere le “sparse notizie nel suo prisco stato”, aveva letto “sicuramente il maggior numero degli autori greci e latini, e con singolar industria da essi tolto tutto e quanto riguardar poteva le cose calabre”[19], allora non c’è dubbio che la sua cultura sia fondata soprattutto sulle fonti classiche e non su documenti attinti direttamente. Per la sua formazione culturale, Barrio appartiene alla schiera degli storiografi umanisti, i quali, non bisogna dimenticare, accettavano “senza discutere tutto quanto aveva tramandato l’antichità”[20]. La fonte classica aveva la stessa autorità della Bibbia: solo quando l’autorità della Bibbia cominciò ad essere intaccata dalle continue e accese diatribe, che si aprirono all’indomani della riforma luterana, anche l’altra cominciò ad essere messa in discussione. Queste diatribe, originate dalla volontà di stabilire l’integrità della fede, finirono con il provocare un effetto contrario a quello desiderato: la miriade di discussioni e di ricerche filologiche che furono avviate finirono con il secolarizzare le Sacre Scritture, e portarono ad un maggior affinamento del metodo storico. Prima, tranne qualche raro esempio, come quello dell’umanista Lorenzo Valla, il quale riuscì a stabilire nel De falso credita et ementita Constantini donatione declamatio la falsità del documento, era difficile che un dotto ponesse in discussione l’autorità di un testo antico. Per raggiungere un tale risultato occorrerà attendere la seconda metà del XVII secolo, quando nella coscienza del tempo si avvertì lo scarto tra il presente e il passato: “la tensione di tutti gli eruditi secenteschi per cogliere la verità storica nella sua genuina espressione, la ricerca quasi ascetica della testimonianza sicura, costituirono la premessa necessaria e sufficiente per rendere la loro mente capace di concepire la profonda diversità del presente dal passato”[21].
Il nostro sacerdote apparteneva per formazione e per spirito all’epoca precedente, quando cioè ancora la testimonianza antica risultava essere un fatto indiscutibile. Ad esempio, parlando della venuta degli Enotri in Calabria, Barrio scrive che “tanti anni prima della distruzione di Troia, Enotro e Peucezio vennero “dall’Arcadia” in Calabria, mille anni prima della fondazione di Roma. Dunque, dall’arrivo di Enotro vi sono tremilatrecentoventidue anni”, e a conferma di tale venuta egli chiama in causa Aristotele, Strabone, Apollodoro, Polibio, Antioco e Dionigi di Alicarnasso. Di ognuno di queste antiche autorità Barrio riprende la citazione senza controllare se al loro interno sussistano delle contraddizioni. La testimonianza classica si impone di per sé, e non ha pertanto bisogno di una ulteriore verifica. Non esprimendo nessun giudizio critico, Barrio sembra avallare qualsiasi versione storica. Dato però il profondo rispetto che l’autore nei confronti della citazione antica, egli non si sognerebbe nemmeno di manipolarla: in virtù del fascino che la storiografia classica esercita sul dotto umanista bisogna asserire che la fonte citata nelle loro cronache sia autentica. A ben vedere sembra che Barrio, evitando ogni commento critico, avvalori di fatto ogni sorta di notizia. Ecco perché si è sempre svalutato il De antiquitate per le troppe “favole” a cui dà credito. In realtà, come sostiene il Tiraboschi, il De Antiquitate “benché abbia non leggier copia di favole, contiene ancora nondimeno assai esatte ricerche, e una diligente descrizione dell’antico e moderno stato di quella provincia”[22].
[1] G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Milano, 1966, vol. IV, p. 88.
[2] A. Codazzi, Barri Gabriele, in Dizionario Biografico degli Italiani, p. 522.
[3] F. Soria, Memorie storico-critiche degli storici napoletani, Napoli 1782, vol. I, p. 62.
[4] Pacichelli, in G. Valente, Il viaggio in Calabria dell’Abate Pacichelli (1693), Messina 1964, pp. 65-66.
[5] Soria, op. cit. , p. 62.
[6] Che, invece, come ricorda Tiraboschi, fu poi stampato in Roma nel 1571. Soria però sostiene che Barrio sollecitasse il Vettori “alla ristampa del suo libro Pro lingua latina, giacché esso nel Maggio del seguente anno ritrovar si doveva assolutamente in Calabria” (op. cit., p. 62)
[7] Soria, op. cit. , p. 62.
[8] Codazzi, Dizionario Biografico degli Italiani, p. 522.
[9] Ibidem.
[10] G. Bernardino Tafuri, Istoria degli Scrittori nati nel Regno di Napoli, Napoli 1719, vol. III, parte IV, p. 567.
[11] A. Tenenti, La storiografia in Europa dal Quattro al Seicento, in AA. VV., Nuove questioni di Storia moderna, Milano, Marzorati, 1966, vol. II, p. 998.
[12] G. Pepe, Il Mezzogiorno d’Italia sotto gli spagnoli. La tradizione storiografica, Firenze, Sansoni, 1952, p. 45.
[13] Codazzi, Dizionario Biografico degli Italiani, p. 522.
[14] Soria, op. cit. , p. 62.
[15] Ivi, p. 64.
[16] Ad Vocem “Barrio”, in Biografia Universale Antica e Moderna, Venezia 1822, vol. IV, pp. 350-51.
[17] Soria, op. cit. , p. 62.
[18] Pepe, op. cit., p. 45.
[19] L. Accattatis, Le biografie degli uomini illustri delle Calabrie, Cosenza 1870, vol. II, p. 21.
[20] Tenenti, op. cit., p. 1004.
[21] Ivi, p. 1034.
[22] Tiraboschi, op. cit., vol. IV, p. 88.