Gabriele d’Annunzio , Prato

Da Paolorossi

Prato – Duomo

O Prato, o Prato, ombra dei dì perduti,
chiusa città, forte nella memoria,
ove al fanciul compiacquero la Gloria
e la figliuola di Francesco Buti!

Spazzavento, alpe delle mie virtuti,
che lustri come di ferrigna scoria,
ove parvemi svelta alla Vittoria
penna di nibbio fra’ tuoi sassi acuti!

O lapidoso letto del Bisenzio
ove cercai le sìlici focaie
vigilato dal triste pedagogo,

camminando in disparte ed in silenzio,
mentre l’anima come le tue ghiaie
faceasi dura a frangere ogni giogo!

[…]

O Libertà, colui che abbeverasti
del tuo latte alla tua sinistra mamma
sì che col nutrimento egli la fiamma
del tuo gran cor si bevve e i sogni vasti,

il Leon primogenito nei Fasti
della tua nova genitura, infiamma
de’ suoi vestigi il suol, dall’alto dramma
di Roma escito agli ultimi contrasti.

Quivi il Profugo sosta. E la giogaia,
la gleba, il fonte, l’albero, la porta
ch’egli varca, la mensa ove s’asside,

il pan che spezza, l’uomo a cui sorride
sono sacri. E il molino di Cerbaia
splenderà fin che Roma non sia morta.

O Vaiano, Cammin di Spazzavento,
Madonna della Tosse, umili e insigni
nomi di luoghi e di fati! I macigni
e gli sterpi indagai pien di spavento.

Taceva il suolo, senza mutamento
Ma non vidi, pe’ tramiti ferrigni,
passi d’eroe? Me li facea sanguigni
tutto il sangue del cor mio violento.

Lui seguitai per monti e boschi e fiumi,
Lui vidi giungere al Tirreno, ignoto
entrar nel mare come un dio marino.

E, quando mi chinai su’ miei volumi
ebro, nel canto omerico il piloto
re d’Itaca mi parve men divino.

Lascia che in te s’indugi la mia rima,
Città della mia chiusa adolescenza,
ove alla fiamma della conoscenza
si rivelò la mia bellezza prima.

L’anima del fanciullo è fatta opima.
Ave, ingigliata figlia di Fiorenza!
Quei ch’era ignaro della sua potenza
ora combatte a conquistar la cima.

Ti mando sette e sette spade acute
che recisero i dìttami e gli acanti
della Memoria, e n’hanno aulente il ferro.

Le promesse ti furon mantenute.
Ma il più fiero de’ mostri or m’ho davanti.
L’onta cada su me, se non l’atterro.

(Gabriele D’Annunzio, “Prato” da Laudi – Le città del Silenzio)

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