Gabriele Gabbia, La terra franata dei nomi, L’Arcolaio 2012
Se opaco e misterioso rimane la maschera segreta di ogni poesia, l’auscultazione é, invece, il chiaro gesto di un addentrarsi negli strati più superficiali dell’epidermide, e questo per non confondersi con la parola logorroica e orizzontale che genera tempo.
L’ago ipodermico che é la poesia di Gabbia, é responsabile, dunque, di piccole perforazioni sottocutanee, sapendo che non si arriva mai all’indicibile, perchè ciò vorrebbe dire strappare la maschera all’innominabile; pena la fine di tutto.
Gabbia si mantiene allora nella misura del testo breve, distinguendo ciò che va detto da ciò che provvisoriamente appare – forse in questo senso vanno intesi i ricorrenti inserti in corsivo, come a delineare due superfici, due diverse qualità della voce.
La dimensione di precarietà della parola quotidiana si misura tutta nella censura sociale, nell’impossibilità di potersi esporre al ludibrio per rischio di sottrazione o di eccesso. Questa é la causa più rilevante della precisione e precisazione in poesia: la parola precisamente dice per distinguersi dall’affanno sensoriale, dall’azzeramento di senso della parola giuridica, della parola contratto. E’ un problema che Gabbia si pone con coscienza e che risolve a suo modo. Così il suo pensiero non si costruisce attraverso il frammento ma lavora sulla struttura del testo breve, conchiuso - testo, e non frammento, é il celebre “m’illumino d’immenso”, rapido discendere nel senso dell’esperienza umana restituita alla necessità della parola concentrata; diversamente da quanto potrebbe apparire, perché in genere il frammento é identificato con l’esperienza laconica e oracolare, quindi astratta e speculativa.
Gabriele Gabbia ci segnala la corporeità come musa vacillante – eppure incombente – della casa della parola: “Diatribe del ventre”, è il titolo della prima sezione – già con l’indicazione di un’assonanza scontrosa, di un borbottio – “L’impasto ventrale/pasce diatribe”, p.16; “Lacerti, corpi, lembi. Brani di nulla”, nella coscienza di un materialismo che si scarnifica delle sue stesse forme, condannato a ritornare da ogni inizio: “e tutto trova notte. tutto/(e postuma ogni dolcezza), p. 81.
Questo venire “da” e tornare “a”, é spesso segnalato da versi “inscatolati”, “Tu/ritorni nei tuoi passi, rientri/…”, p. 79; “Ti é morta nella testa la testa“, p.57; “- rientra / nelle membra/ la matrice del suono” p.15; “legami franti dal corpo/nel corpo.”, p.51; “pianto di lucore//nel pianto“, p.65. Ma anche da verbi come innervare, dischiudere, rientrare, maturare, scardinare, soccombere, implodere, reiterare, discostarsi, divenire…tutti espressione di un venire, di un de/rivare da qualcosa per radicarsi e poi sdradicarsi, farsi matrice. Si deriva perché “La materialità discostatasi dal grembo/giunge al verso/(l’isola)”, p.18.
Queste poesie, dunque, si costruiscono a partire da una delle immagini più significative della poesia del ’900, e cioé la soglia, il limite al di là del quale l’essere é indistinto – archetipo – e poi si fa “io” declinato nell’esperienza dell’umano e del dolore, bramando quel senso di appartenenza perduta dopo essere stato catapultato qui, per colpa e per mistero, e appellandosi ai fratelli dello stesso sangue:”Tu cerchi il tuo sguardo per crederti“, p.72; “Io percorro te stesso/nel silenzio che trascorro/nell’ausculto/dell’andirivieni dell’altro/da te che é in me:/l’essente in cui sei -/ciò cui sto.”, p.73.
E’ chiaro, quindi, che “La coscienza non coincide con la voce -//tutto si fa corrente”, p.77. Ogni cosa s’innesta, ritorna, ogni essere é condannato a ritornare spettro; egli é “un infinito/ridotto al corpo dell’osso“, p.63.
La dislocazione temporale della parola, donata per il canto inutile che si deve al Nulla, é sempre offerta sull’altare sacrificale della resistenza a morire, a farsi diafana presenza, malgrado il languore e la passione delle forme a perdurare – un poeta sotterrato, a mio avviso, prima dei riferimenti riconosciuti: Celan, Mesa, Ranchetti, nella poetica di Gabbia, è Ungaretti: la morte si sconta vivendo: pensiero che coincide con la vita in “trincea”, nella resistenza a per/durare oltre la morte. Ché, detto con un passaggio di questo libro, risuona così: “Lavacro/nei frammenti di ritorno”, p. 65.
Queste forme, per rinascere, cercano un luogo/ specchio; non una spiegazione, una gnosi che preveda anche la nostalgia del ritorno, ma una madre, il corpo sospeso tra l’essere e il non essere, la porta, la zattera, come dopo un naufragio. L’io, per essere, deve sottrarsi, anche qui dove é apparso, quasi che il suo compito non fosse quello di fiorire, rigoglioso, proclamando lo sfacciato barocco della vita, ma di farsi specchio di un’assenza conquistata, prefiguratrice del suo accertato obliteramento:
Se il compito è “Soccombere alla possessione d’evocare evocando“, p.80, allora la poesia non può essere che sottrazione, dichiarazione del fallimento a vivere, di ogni spocchiosa dichiarazione di speranza. L’unico messaggio che può proclamare, é la dichiarazione di una pluralità, di un attaccamento alla razza, al calore della tana in cui le creature, momentaneamente sottratte al destino della loro origine, si appellano alla preghiera, all’essere collettivamente un io in tutti.
Sebastiano Aglieco
*
VII
Talvolta ti atterra il corpo addosso
ed è il cupo gorgoglio di un verbo
mentre si vaga, per ossessioni, per
stordimenti - per storni. Il corpo -
un ceppo – si allontana dallo sguardo
- suo epicentro, suo traguardo – nel candore
stridulo delle cose, ove niente
impedisce la resa, la dipartita, ove la voce
si ascolta una volta sola, mentre tutto
non torna – è molto diverso – ricomincia.
*
XI
Ascoltare il vuoto che ci abita
nel silenzio che assedia il mattino
ritrovando stanche membra
nella tregua che contiene le strade
gli odori, l’occhio che s’affaccia
e insegue tra i vetri vapori, o il gelo
ch’é fra noi e il cielo
- primo pianto d’inverno –
forse l’alba, d’un ultimo giorno.
*
XVIII
Ho sempre guardato, guardato,
dal nulla da cui vedo
i corpi della soglia,
laddove sono rimasto
a fissarne
la fissità inquieta
d’un nulla.
*
XXVIII
Non è vero niente - niente
è ciò che si dice. Averne
una che accarezza
annulla
per posarne,
laddove ciò che empie
è ciò che tace.
*
XXIX
In limine allontanarsi,
aderire a un limite.
Cadere a un innesto -.
cadervi dentro.
*
XXXV
Scrivere è congiungere mente e membra
come amarsi. Rabberciare
legami franti dal corpo
nel corpo.
*
XLV
Madre,
distendi il tuo sonno canuto,
riposa anche l’ombra di te, di me
che ti guardo
alla deriva
distesa – calma,
come dopo un naufragio.
*
XLIX
Io sarò voi -
i morti, tutti,
noi, voi
dopo di me, quando
solo, soffierò
lo sguardo, da ciascuno
di voi tutti
su ognuno
di me.