Al Teatro della Pergola di Firenze è andato in scena Sinfonia d'autunno, adattamento dell'omonima celebre pellicola di Ingmar Bergman datata 1978 ed interpretata da Ingrid Bergman e Liv Ullmann. La regia è di Gabriele Lavia che si misura per la terza volta con Bergman, dopo aver diretto e interpretato Scene da un matrimonio (1997-98) e Dopo la prova (2000).
Sinfonia d'autunno è un dramma psicologico e familiare che vede due donne, una madre e una figlia, come protagoniste. C'è un solo uomo, Viktor, il marito della figlia, che è quasi in disparte. La madre, Charlotte, celebre pianista, torna a visitare la figlia Eva dopo sette anni. Nel frattempo la coppia ha perso un bambino; Viktor soffre e ne sente la mancanza, Eva invece si comporta come se le fosse ancora accanto.
Charlotte ha sempre anteposto il suo amore per la musica e la sua carriera alle figlie, al marito e a tutti gli altri uomini che ha avuto: praticamente ad ogni cosa. Adesso però la affligge un fortissimo mal di schiena che le impedisce di suonare come un tempo e, inconsciamente, sente (forse) una sorta di confuso senso di colpa per aver abbandonato le figlie. Perché oltre a Eva, infelice nel suo matrimonio e immersa nel dolore del suo lutto, c'è anche Helena che, oramai, a causa di una grave malattia, si esprime solo con urla e suoni gutturali. Charlotte aveva tentato di allontanare da sé il dolore di quest'ultima facendola ricoverare in una clinica, ma, ora che Eva ha portato Helena a casa sua, non può far altro che confrontarsi anche con esso.
Lavia toglie ogni riconoscibilità al luogo dove si svolge l'azione - nel testo originale sarebbe la canonica dove Viktor, pastore, esercita la sua missione - e lascia un ambiente unico dove Alessandro Camera (sue le scene) fa filtrare la (poca) luce da un ampio finestrone sullo sfondo. È la penombra a prevalere, soprattutto nella parte sopraelevata della scenografia, il corridoio che scorre davanti al grande infisso, accesso alle stanze (dietro le quinte) dove è relegata Helena. Quando percorrono quel corridoio, i personaggi sembrano allo spettatore soltanto ombre. Un po' di colore è dato dai giocattoli del bimbo morto e dalle sue immagini che rimanda una TV.
I toni del grigio predominano anche nei costumi ideati da Claudia Calvaresi; l'unica rottura si ha soltanto con il rosso acceso dell'abito che Charlotte indossa per la cena. E ancora, grigio è il divano al centro del palcoscenico e scuri sono i mobili e le suppellettili. A proposito di oggetti sulla scena, un rilievo particolare assume il pianoforte. Scrive Lavia: "La maledizione di Charlotte è il "pianoforte". Per il "pianoforte" Charlotte è stata una pessima madre, una pessima moglie, una pessima amante, per il pianoforte Charlotte ha rovinato la vita a tutti coloro che le sono stati vicino. E ha rovinato se stessa. Tutta questa storia di "esclusioni" e di "privazioni" ruota intorno alla figura simbolica del pianoforte".
Questo pianoforte non viene mostrato, è invisibile allo sguardo del pubblico ed è risolto con il solo movimento delle mani e delle braccia. Con un forte significato simbolico, anche la melodia prodotta è assente, sostituita con un suono monotono, potente e prolungato.
A dominare, poi, sono una musica che sembra riprendere le note dei carillon del bimbo che Eva lascia suonare, i rumori del temporale e le urla di Helena, intervallate da quelle della madre.
In quest'atmosfera sommessa ed asettica, ma pervasa da un dolore tangibile, ognuno vive la propria solitudine, una solitudine da cui invano si tenta di fuggire. Helena (Silvia Salvatori) è isolata dalla malattia, Viktor (Danilo Nigrelli) cerca passivamente l'affetto della moglie, Eva (Valeria Milillo) è bisognosa di amore e piena di rancore, combattuta e quasi ansiosa quando recita le battute. Charlotte, infine, è un'ottima Anna Maria Guarnieri che, liberatasi dell'iconografia elegante che l'ha sempre caratterizzata, incarna il dolore e la "pesantezza" del personaggio sulla scena, camminando faticosamente ed indossando vestiti larghi che la gravano ancor di più. Incapace di essere vicina alle figlie e al loro dolore, esclusa dalla loro realtà di tutti i giorni, rifiutandosi e rigettando l'idea di piegarsi a "una vita normale come una donna normale", dà vita a un personaggio di spessore e di grande modernità. La sua splendida interpretazione solleva lo spettatore anche quando la narrazione sembra risultare un po' troppo appiattita e statica, specie paragonata ai momenti in cui la regia raggiunge risultati di forte impatto visivo ed emozionale, come quando Helena si fa cadere dalla sedia a rotelle e, strisciando per terra, rotola faticosamente giù per le scale fino al soggiorno per chiedere alla madre di suonare per lei.
Considerazione finale: l' Höstsonaten di Bergman era una "sonata", ossia un brano per strumenti solisti, mentre la "sinfonia" della traduzione è un pezzo composto per un'orchestra. La solitudine è la chiave del testo e della regia. Scrive ancora Lavia: "Sentirsi "esclusi" è un sentimento che Bergman doveva conoscere molto bene. Un sentimento comune ai teatranti, ai concertisti, a quegli strani esseri umani che "si espongono", che "sono" sul palcoscenico. Hanno una sola possibilità d'essere: "esporsi". Non riescono a essere padri o madri. Mariti o mogli. Non sono normali. Sono "strani" e sono condannati a quella che Bergman chiama la "Solitudine Assoluta", che forse è la maledizione comune della nostra epoca. L'epoca del Nichilismo compiuto".