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Gabriella Lizza: pratica dell’ascolto in giardino

Creato il 25 novembre 2015 da Lifestyle

2 Nel giardino di Gabriella Lizza nel borgo di Monticello, in Umbria, presso Todi si respira una botanica del desiderio, profondamente radicata nel territorio e attraversata dalla scelta di piacere. La dolcezza del suo desiderio ha il senso del gusto, l’attrazione del dettaglio, l’eleganza che non appare ma cresce in ogni scorcio, e non si esaurisce mai. È un’esperienza speciale in cui la sensibilità diventa metafora di un certo tipo di perfezione. Una realtà commisurata ad un desiderio umano: l’appagamento. Non a caso questa giardiniera non sogna ma serenamente esperisce il suo angolo verde stemperando la grande capacità di ascolto che le appartiene e che difende con lunghi silenzi.

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Nel giardino di Monticello c’è anche qualcos’altro. Per cinquemila metri quadrati qualcosa ti segue e insegue lentamente, sempre da lontano alla giusta distanza, qualcosa che continua ad accarezzarti anche dopo che hai lasciato il giardino. Si potrebbe chiamare mistero, non detto, tempo sospeso o addirittura assenza. Di certo rimarrà inespresso e insoluto (per fortuna!), ma è riconducibile alla personalità in apparenza distaccata della sua autrice. Gabriella è toccata da una quieta timidezza, da un garbo, da un lento cedere che la pervade di un seducente aplomb. Il suo giardino oggi, dopo essersi affrancato da ridondanze legate al passato, leziosità e insicurezze che ogni giardiniere vive all’inizio, si è trasformato in una storia personale che ha regalato al giardino la grande qualità di un potente imperfetto.

Ogni creazione contamina anche gli animi più freddi quando si fa contraddittoria e originale, e il giardino di Monticello dopo trent’anni stabilisce tra questi parametri un equilibrio in movimento, fatto di ricerca estetica e botanica nel rispetto del paesaggio. Il paesaggio agrario di questa parte dell’Umbria offre ulteriori elementi di qualità paesaggistica che lo sguardo di Gabriella non tralascia mai: sia quando rivolto al fondovalle, dove l’immagine dominante è quella dei grandi campi a seminativo, punteggiati da alberi e residui di siepi e filari, sia soprattutto quando è rivolto alle colline intorno, coltivate prevalentemente a vite e olivo e spesso lavorate a terrazzamenti. La parziale permanenza degli assetti mezzadrili, denotata da campi chiusi e dalle alberature associate ai seminativi, è un valore di storicità. Il giardino si staglia in questa realtà suturando perfettamente ogni ferita del territorio e tesorizzando la ricchezza paesaggistica autoctona, ponendosi in elegante contrasto con essa per restituirci ancora più suggestivo il lirismo di questi luoghi ameni.

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Appena si varca il giardino, Gabriella mi accoglie insieme a Gerardo, marito, complice, amico di desideri e bellezza che si dissolve quando iniziamo a vagare per i sentieri. Si parte da un microscopico giardino bianco quadrato, pensato intorno ad un ulivo, omaggio alla grande giardiniera inglese, Vita Sackville West, il cui incontro di Gabriella sui suoi libri ha accesso la fiamma del giardinaggio. Qui vegetano felici la rosa Iceberg, il phyladelphus microphyllus e l’artemisia ludoviciana. Poi dolcemente si giunge al nucleo originario della casa, il “giardino vecchio”, creato là dove un tempo c’era un campo di grano, intorno ad un grande tiglio. È una zona diventata nel tempo abbastanza ombrosa, molto verde, rilassante e tranquilla. Si susseguono le fioriture soprattutto primaverili con i due glicini sul pergolato, il malus bianco e i prunus rosa eretti ad accompagnare gli abbondanti ciuffi di narcisi. Il giardino più recente, “il campo”, è invece un’esplosione di cromie, sia per l’abbondanza di rose, (rose antiche, inglesi, cinesi, ma soprattutto tè) sia per il fogliame che in autunno si tinge di giallo e di rosso screziato con rhus, cotinus e kaki. Scendendo ci si affaccia su una grande aiola ovale tempestata di splendide rose, dove sono raggruppate quelle più profumate e una sedia per fermarsi ad ammirarle. Poi si rivela il laghetto centro di attrazione per tutte le forme di vita: pesci, rane, libellule, colombe. E questo piccolo popolo baciato dall’acqua chiama ancora più silenzio, regalandoci il ‘rumore’ della natura che pulsa. Poi la passeggiata prosegue tra le collezioni di piante amate a cui Gabriella è particolarmente legata: cisti in molteplici varietà, philadelphus, iris, hemerocallis, aster. Nella scelta dei colori, nella forma delle masse e nella geometria delle tessiture si sente il passato di Gabriella tra disegni e pitture, la passione dell’arte che condivide col marito scenografo. Nonostante i suoi ipnotici occhi blu incorniciati dal candido ovale del viso me la facciano immaginare come una pittrice inglese con una tavolozza all’aria aperta, mi racconta della sua l’estrazione abruzzese che spiega i tratti normanni e il suo carattere determinato, a cui si è aggiunta un’indole perfezionista che in giardino è molto fruttuosa. La sortita continua e ci spinge verso confini sensoriali tracciati da spazi nuovi che il giardino sta lambendo con nuove alberature basse per terminare sontuosamente nella stanza della piscina, il palcoscenico da cui ammirare il giardino e il paesaggio sottostante. Questo spazio è ammantato da un grande prato a cui le bordure di rose rifiorenti Heritage, Penelope, le salvie blu, e due cipressi sentinelle, fanno da giusta cornice. Ci sediamo e scambiamo pensieri ma qualcosa mi distrae. Mille dettagli di arredo e ornamento mi rapiscono. Soprattutto le pietre che ho incontrato e che mi obbligano in qualche maniera a ricercarle con gli occhi. La giardiniera mi spiega che rappresentano un punto fermo e che a differenza delle piante non si deteriorano. Percepisco un’ansia sottesa e piacevolmente umana. Il giardiniere infatti è in balia degli eventi naturali, sacrificato da lavoro costante e da mille incertezze. La pietra si fa metafora di sicurezza, d’immutabilità, di cardinalità agognata in giardino.

Il buen retiro di Monticello è la dimostrazione che piantare, potare, concimare, esigono soprattutto un grande amore. Poi un grande abbandono a se stessi. Avere la coscienza che il giardino che si crea è il giardino nostro, del nostro mondo, della nostra emozione, della nostra espressività, e lo è in modo insostituibile. Perché se si crea un roseto è il nostro roseto; tant’è che si può subito riconoscere un roseto da un altro: quella è la sua voce, è quel suo particolare modo di essere e fare che sviluppa quell’estetica particolare, anche se poi ci sono motivi e segni comuni a tutti noi. L’esperienza è un fatto comune e condiviso, solo che, per il nostro modo particolare di entrare in contatto con la realtà, ognuno di noi dà più importanza a certe cose piuttosto che ad altre, ma non perché le altre non abbiano importanza per quella persona, ma per una sorta di segno, destino, predisposizione.

Se si vuole fare un giardino, e non solo dunque ‘crearlo’, bisogna guardarsi da un’estetica troppo intellettuale o citazionista, troppo di moda. Bisogna cercare un’estetica che nasca da noi. La poesia in giardino richiede un rapporto col mondo che non è certo quello della pianta perfetta. È il giardino che parla nel suo insieme. Oggi Gabriella ha raggiunto questa consapevolezza e lavora per sottrazione. Quando si accorge di cosa non funziona in giardino, elimina il futile. Ha conquistato quella consapevolezza che dimostra che dopo un po’ il tempo ci parla. E quel tempo non è quello degli orologi: giorni, mesi, anni. È il tempo interiore della nostra esperienza: l’esperienza che abbiamo voluto esprimere è passata dentro di noi, è superata. Allora possiamo guardarla come fosse di un altro. È una reazione fredda, la nostra mente guarda e vede quello che non c’è, quello che va bene e quello che va tolto. In quel frangente esatto scatta qualcosa di speciale: fissare l’attimo del luogo o della storia in una vista, o svista, ed è come non abbassare mai più gli occhi su quell’attimo, continuare a riviverne dettagli, sfumature e impressioni. Una giardino è un tassello d’esperienza vissuta e proprio cosi va gustato il giardino di Monticello.

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Più ancora di ogni altra arte, il giardinaggio esige il giudizio di valore: ferme restando le oscillazioni personali e storiche del gusto, è necessario fissare alcuni criteri come lo spessore dei livelli di gusto estetico, la non stereotipia botanica e formale, il coraggio e la coerenza stilistica, soprattutto la capacità di fare silenzio dentro di sé per mettersi in ascolto del linguaggio del paesaggio. Questa rara qualità, ma è meglio dire capacità, va allenata costantemente. Qui sta l’eccellenza della Lizza che ogni volta che ritorna riscopre un nuovo giardino, una storia nella storia, ascoltando e riascoltandosi senza soluzioni di continuità. Il giardiniere che reinventa se stesso è un divulgatore insostituibile, un veicolo di conoscenze e un canalizzatore di bellezza con il compito delicato di contaminare l’alfabeto emotivo di ogni persona con cui interagisce condividendo la propria esperienza naturalistica e quindi umana.

L’irresistibile irrequietezza del giardiniere è anche il motore del giardino, la sua vitalità e ne ha bisogno come l’aria che respira, come l’acqua per sopravvivere. Gabriella, dietro la sua apparente imperscrutabilità, cela languori forti e un’inquietudine energizzante. Se il suo giardino non cambiasse il suo corpo continuamente, il suo cervello marcirebbe. Me ne accorgo da come mi guarda, da come mi ascolta, da come osserva ogni singolo dettaglio, da come attende. L’attesa è il climax delle passioni profonde e laceranti del giardiniere sincero.

Le ho chiesto alla fine che ci trova di speciale in quel giardino tanto amato ma ha sorriso e non ha risposto, probabilmente perché i suoi pensieri bighellonavano per conto proprio, come i petali di rose, forse erano andati a spasso per altri climi, in altre terre che non fanno parte del mondo. Alzo i tacchi e abbandono questo lembo di terra che ancora oggi conserva il gusto delle cose belle, un po’ stordito dall’odore dolciastro di ginestre e coronille.

di

Maury Dattilo

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