Gaetano Salvemini
Il 6 settembre 1957, a Sorrento, moriva Gaetano Salvemini, uno dei più grandi uomini che abbia avuto l’Italia; uno di quegli storici di genio che fanno, o rifanno la storia, uno di quegli indagatori della politica che anticipano gli eventi, che profetizzano le sciagure, per cui nessuno, o quasi è disposto ad ascoltare; un meridionale vero, un pugliese tutto sangue e passione, ma anche uno dei più lucidi, concreti, razionali studiosi che prendono di petto la realtà storica e l’affrontano, uno dei più strenui e determinati, coraggiosi uomini che abbiamo avuto nella prima metà del ventesimo secolo.
Gaetano aveva preso le prime lezioni di “mezzogiorno” a Firenze, appena diciassettenne, quando era riuscito ad avere una borsa di studio che lo aveva sottratto – lui primo maschio di nove fratelli e sorelle –a quello che nel Sud era allora il destino inevitabile dei ragazzi non stupidi delle famiglie povere : farsi prete. E i fatti dimostreranno come fosse il cammino che meno si adattava a quest’uomo cui il destino, la vocazione, il temperamento lo portavano a lottare in tutt’altri campi: battaglie sociali, storiche e politiche, dove dimostrò presto la sua tempra con il voler guardare dentro il calderone della questione meridionale, e dentro il corpo sociale e politico di quella cosa buffa chiamata Italia, scoperchiarne tutti i coperti che avevano fatto i diavoli della politica (del nord, ma anche del sud) e sentirne i mefitici odori che ne venivano fuori.
E su questa strada lo guidò il napoletano Pasquale Villari, il meglio che c’era sulla piazza, gli insegnò a sviluppare quel coraggio e quella concretezza naturale nell’agire civile e intellettuale, che aveva dentro di sé e sarebbe diventata, poi, la sua cifra, uno dei tratti caratteristici di tutta la sua opera.
Infatti a soli vent’anni, Gaetano parte in quarta e pubblica “Un comune dell’Italia meridionale: Molfetta”, scritto esemplare per la stringente analisi critica delle stratificazioni sociali della cittadina pugliese, dei suoi intrecci politici, dei suoi radicamenti economici, che lo pone subito sulla scia della generazione dei Fortunato e dei Franchetti, e del suo stesso maestro, Villari, che avevano parlato della questione meridionale come di una questione nazionale, questione che avrebbe coinvolto l’Italia e il suo modo di essere diventata Stato unitario, e cioè uno Stato che diede un solenne calcio in culo a quei “gobbi” dei meridionali che ne ostacolavano la crescita. E siccome Salvemini non aveva solo talento (il sud ne ha avuto tanti di talenti sprecati), ma era un meridionale con le palle, con il DNA del lottatore, come i pescatori molfettesi, o i contadini di Altamura, un uomo sorretto da una forte idealità, ma anche da una personalità straripante e un carattere di ferro che non gli faceva temere niente nessuno, lo disse chiaramente a Giovanni Giolitti, che per giustificare il suo cinismo politico e la sua insensibilità per i gravi problemi civili ed economici del meridione aveva concepito una metafora, rimessa in circolazione nel nostro tempo da Giulio Andreotti: «Trovai un gobbo, e non potevo vestirlo altrimenti che da gobbo», Salvemini gli disse, nel suo famoso pamphlet, che lui era “Il ministro della malavita” sia per il malcostume che aveva instaurato il suo governo, sia per il disprezzo con cui aveva trattato la questione meridionale perseguendo una politica senza scrupoli, che contribuiva a peggiorare il Sud, con danno per l’intero Paese.
“E’ vero, un uomo di governo non può raddrizzare tutti gli uomini moralmente “gobbi” che trova nel suo Paese. Ma almeno deve operare in modo da non aumentarne il numero, come ha fatto Giolitti, il ministro della malavita. Lui i gobbi dell’Italia settentrionale li trovò e li lasciò come erano, mentre quelli dell’Italia meridionale li trovò cattivi e li lasciò peggiori”.
Salvemini, inoltre vedeva, con angoscia, che i primi a voler male alla propria terra e alla propria gente erano gli stessi meridionali, che avevano eletto molti “gobbi” parlamentari di pessima qualità, coi metodi (corruzione e servilismo) già denunciati da Salvemini, denunce che gli fecero aumentare il numero di nemici politici e non.
Ma tutta la sua vita, fin dalla nascita (8 novembre 1873) era stata durissima, come poteva esserlo (ed è ancora oggi per molti aspetti) a quel tempo la vita in una regione diseredata come la Puglia, dove, come diceva Tommaso Fiore, bisogna farsi formiche per poter sopravvivere, e dove un cafone si trova assai meglio all’inferno che a dover cavar sangue da quelle terre avare, irte, rocciose. E in quelle terre Gaetano aveva visto lavorare il padre, e molti dei suoi fratelli, e forse ci sarebbe andato a finire lui stesso se alcuni altri grandi meridionali, come Pasquale Villari, Felice Tocco, Girolamo Vitelli, e Augusto Del Vecchio, che insegnavano all’Università di Firenze, allora piccola Parigi della cultura italiana, non lo avessero scoperto per quel che era, un cavallo di razza purissimo che superava tutti gli ostacoli con facilità: a 23 anni laureato in lettere, a 25 insegnante di latino in una scuola media di Palermo, a soli 28 docente nelle Università e titolare della cattedra di Storia moderna, a Messina, dove ebbe la prima grande tragedia della sua vita.
Sorpreso dal terremoto del 1908, perse la moglie, i cinque figli, e una sorella. E il dolore incancellabile di queste perdite ne faranno un monolite di volontà e di determinazione, una pietra aguzza e tagliente per combattere a fianco degli umili e dei diseredati, con le armi della dialettica, dello studio, della denuncia di tutte le offese e le ingiustizie, per il trionfo della libertà e della giustizia. Per lui la propria morte non avrà alcun significato se non santificata dal martirio, dall’aver combattuto per i suoi pescatori e cafoni, per le donne e i bambini della sua terra, analfabeti denutriti, senza alcun diritto umano, sfruttati da uno Stato cinico e ingiusto, come lo erano stati, per secoli, dagli stessi “baroni” del sud.
Successivamente, Salvemini insegna all’Università di Pisa e infine a quella di Firenze e nel 1919 viene eletto deputato nel partito socialista, da cui presto prenderà, però, le distanze. Già in uno articolo del 1920 condannerà sia il socialismo rivoluzionario del tempo, sia il socialismo di Stato o burocratico, “che tende ad asservire il movimento proletario al dispotismo di una classe sociale parassitaria – la burocrazia infinitamente peggiore della borghesia”.
Egli vi aveva aderito nel 1897 per cercare di condurre su posizioni meridionalistiche il movimento socialista e trovare una soluzione ai problemi del Mezzogiorno, insistendo sulla necessità di un collegamento tra operai del nord e contadini del sud, sulla necessità dell’abolizione del protezionismo e delle tariffe doganali di Stato (che proteggono l’industria privilegiata e danneggiano i consumatori), e della formazione di una piccola proprietà contadina che liquidasse il latifondo, ma quel socialismo riformista che aveva elevato la dignità del lavoro, dato coscienza umana e politica a individui, “che erano abbrutiti nel loro isolamento diffidente e servile”, ora non esisteva più.
Un altro grande storico e politico meridionalista, che sarà suo allievo, il casertano Ernesto Rossi, di cui quest’anno si celebrano i cent’anni dalla nascita, dirà: “Se non avessi incontrato sulla mia strada al momento giusto Salvemini, che mi ripulì il cervello da tutti i sottoprodotti della passione suscitata dalla bestialità dei socialisti e dalla menzogna della propaganda governativa, sarei facilmente sdrucciolato anch’io nei Fasci da combattimento”.
In una lettera indirizzata ad Ernesto Rossi, Gaetano Salvemini scriveva così: “Se avessi potuto fabbricarmi un figlio su misura, me lo sarei fabbricato pari pari come te…, ma anche quel figlio — aggiungeva con ironia — sarebbe andato a male come te e come me”. Chi dice Rossi, insomma dice Salvemini, i due erano un tutt’uno, erano uomini del sud di talento, ma anche con le palle. La chiarezza e la logica che informa gli scritti di Rossi è la stessa di Salvemini: stringente, incalzante, che nulla concede alla magniloquenza della retorica e che mai si impantana in guazzabugli incomprensibili. Così come da Salvemini derivò la stessa passione per la giustizia, e identico fu l’istinto di libertà.
Non il Progresso, la Rivoluzione o il Popolo lo interessava, ma lo studio dei problemi concreti specie se questi problemi gli rivelavano l’esistenza di soprusi a danno degli umili. Degli umili in carne ed ossa, con tanto di nome e di cognome. E’ allora che Ernesto Rossi dava il meglio di sé, con le sue denunzie che inchiodavano i responsabili alle loro colpe. Il tutto senza indulgere al melodramma e tenendosi discosto dalle pose accigliate e un po’ ferali dei predicatori di quaresima. L’intrepida moralità, la causticità sibilante, l’astuzia affilata, tutto viene posto al servizio della certezza di dover difendere comunque e ad ogni costo le ragioni della libertà e della giustizia.
I due meridionali con le palle, Salvemini e Rossi, si scrissero un’infinità di lettere, oltre seicento, tra il 24 marzo 1944 e il 18 luglio 1957, poco prima della morte del maestro. Lettere fluide, scorrevoli e avvincenti. Un carteggio che è uno spaccato della storia italiana i cui testimoni sono protagonisti d’eccezione. Un diario a due voci in cui l’affetto, le speranze, le amare delusioni, le ansie personali si mescolano alla vita collettiva di una Italia repubblicana in costante ma difficile costruzione.
In una delle ultime lettere Salvemini scrive: ”Se gl’italiani riescono a convincersi di non vivere ad Haiti, e gradualmente recuperano la stima di se stessi, il nostro Paese può riprendere con vigore il cammino sulla via dell’incivilimento, che oggi ha in larga misura abbandonato. Ciò è vitale per tutti, ma soprattutto per le nuove generazioni”.
E il suo allievo Ernesto Rossi, che morirà a Roma dieci anni dopo di lui, aveva scritto poco prima di morire parole che vibrano di un’accensione poetica: “Se ci domandiamo a cosa approdano tutti i nostri sforzi e tutte le nostre angosce non sappiamo trovare altre risposte fuori di quelle che dava Leopardi: si gira su noi stessi come trottole, finché il moto si rallenta, le passioni si spengono e il meccanismo si rompe… Io non ho mai avuto paura della morte. Mi è sempre sembrata una funzione naturale, inspiegabile, com’è inspiegabile tutto quello che vediamo in questo porco mondo. Crepare un po’ prima o un po’ dopo non ha grande importanza: si tratta di anticipi di infinitesimi, in confronto all’eternità, che non riusciamo neppure ad immaginare. Ma ho sempre avuto timore della “cattiva morte”, ovvero di chi non ha saputo vivere della tranquillità della propria coscienza. E ciò mi sembra di poter dire di averlo scongiurato”.
Con l’avvento del fascismo, Salvemini si schiera da subito contro Mussolini e contro gli aventiniani, e stringe un profondo sodalizio ideale e politico con i fratelli Carlo e Nello Rosselli e naturalmente con Ernesto Rossi, che vedono in lui il comune specchiato grande maestro. Nel 1925, Salvemini e i due Rosselli fondano a Firenze “Non mollare”, il primo giornale antifascista clandestino. Subito dopo, Salvemini, unitamente a Rossi, viene arrestato a Roma dalla polizia fascista, processato e messo in galera. Ma pochi mesi dopo usufruisce di un’amnistia e si rifugia clandestinamente in Francia.
Poi si trasferisce in Gran Bretagna, dove è protagonista di una dura polemica con George Bernard Shaw, ammiratore di Mussolini. Nel 1934 si trasferisce negli Stati Uniti, dove insegna storia della civiltà italiana all’Università di Harvard, e prenderà anche la cittadinanza statunitense. E qui, più di settant’anni fa, prima del geniale Orson Welles, l’autore di Quarto Potere, in una delle conferenze tenute a a Philadelphia il 6 aprile 1935, rigorosamente in inglese, sul tema “Che cos’è la libertà?”, Salvemini dirà che anche le istituzioni democratiche possono fallire perché hanno dei punti deboli.In origine esse si basavano sull’assunto che gli elettori avrebbero scelto I rappresentati migliori fra di loro e che questi una volta che fossero stati eletti avrebbero fatto leggi e controllato l’operato dell’esecutivo nell’interesse della comunità, invece “l’esperienza ha dimostrato che gli elettori raramente scelgono i migliori. Anzi, di fatto, essi scelgono normalmente i mediocri, a volte scelgono perfino i peggiori individui della comunità”. Poi pone in evidenza il fatto che il compito del potere legislativo è diventato sempre più difficile con il mutare delle condizioni economiche e sociali.
Nella prima metà del diciannovesimo secolo, un membro dell’assemblea legislativa era in grado di sottoporre a un esame coscienzioso i disegni di legge che era chiamato a ratificare… Oggi dove potreste mai trovare un uomo in possesso delle conoscenze tecniche necessarie per una valutazione intelligente di tutte le misure su cui un deputato o un senatore è chiamato a votare? Neanche un uomo dotato di un bagaglio tecnico superiore alla media avrebbe il tempo sufficiente per padroneggiare l’enorme massa di questioni che richiedono il suo esame. Il terzo punto debole della democrazia odierna è la stampa quotidiana, “che è diventata una grande impresa capitalistica che richiede milioni di dollari per essere realizzata. Chiunque abbia i milioni necessari è quindi nella condizione di inondare ogni giorno il paese di tonnellate di carta stampata, anche se il suo genio consiste unicamente nello scoprire a quale genere di delitti o a quale tipo di gambe femminili sia più sensibile la parte meno istruita della popolazione. I giornali sono proprietà di aziende capitalistiche o servono a promuovere ambizioni personali che troppo spesso non hanno nulla a che fare con il benessere della comunità. L’editore di uno di questi giornali può avvelenare la mente di un’intera nazione con articoli menzogneri o sopprimendo le notizie.
E’ un despota che non deve rispondere a nessuno per il modo in cui esercita la sua autorità; ha la libertà senza la responsabilità. La stampa è ora una dittatura unica nel suo genere. Piantata in mezzo delle libere istituzioni, le turba insidiosamente e le corrompe. La divisione dei poteri su cui in origine il governo libero si basava è scomparsa, e il quarto stato, la grande stampa quotidiana avendo sopraffatto tutti gli altri poteri — l’esecutivo, il legislativo, il giudiziario — regna sovrana al loro posto. L’onnipotenza della stampa è forse la malattia più pericolosa che affligga le libere istituzioni. Se la stampa quotidiana non fosse così corrotto e stupida (probabilmente più stupida che corrotta) perfino il sistema della caccia al voto non funzionerebbe così male; e i deputati orientati da una stampa intelligente e onesta riuscirebbero a fare una figura migliore…“