Galassie con la morte nel cuore

Creato il 16 aprile 2015 da Media Inaf

Rosse e morte, come foglie d’autunno. Red and dead: così gli astronomi definiscono le grandi galassie ellittiche, le più massicce fra quelle dell’Universo vicino, a sottolineare quanto siano ricche di stelle rosse – vecchie miliardi di anni – ma al tempo stesso povere di giovani stelle blu, quelle che segnalano processi di formazione stellare in corso. Rosse e morte, dunque, ma com’è accaduto? La domanda è ancora aperta, e costituisce uno fra i più importanti problemi dell’astrofisica contemporanea. Però da oggi i ricercatori hanno un indizio in più. Un indizio cruciale. Grazie a una serie d’osservazioni condotte su 22 galassie con il Very Large Telescope dell’ESO e con il telescopio spaziale Hubble di ESA e NASA, un team di astronomi è riuscito a ricostruire il percorso dell’estinzione, il tragitto lungo il quale l’arresto della formazione stellare è andato propagandosi: dal centro alla periferia, come mostrato nella figura qui sotto.

In questo diagramma, la cronistoria ricostruita dallo studio su Science. A sinistra le galassie più antiche, con la colorazione blu a evidenziare le regioni con formazione stellare ancora in atto. In rosso, invece, le regioni ormai sterili, dove rimangono solo vecchie stelle rosse, come nello sferoide gigante dell’universo attuale rappresentato sulla destra. Crediti: ESO

Ma perché è così importante stabilire il cammino seguito da queste antiche e colossali galassie – dette anche “sferoidi” per la loro forma caratteristica – nella loro involuzione verso lo spegnimento? «Questi sferoidi, morti e massicci, contengono circa la metà di tutte le stelle che l’Universo ha prodotto nell’intero arco della sua esistenza», spiega Sandro Tacchella dell’ETH di Zurigo, primo autore dello studio appena pubblicato su Science. «Non possiamo affermare d’aver compreso come è evoluto l’Universo, e come è diventato come lo vediamo oggi, senza aver prima capito come si sono formate queste galassie».

Ebbene, da una stima dell’età delle stelle rosse si deduce che le galassie che le ospitano hanno smesso di produrre nuove stelle circa dieci miliardi di anni fa. Un arresto iniziato, dunque, proprio in concomitanza con l’apice del tasso di formazione stellare nell’Universo, quando molte galassie ancora stavano formando stelle a un ritmo circa venti volte superiore a quello attuale. E iniziato a partire dalle regioni centrali.

«Questa progressione dell’arresto della formazione stellare nelle galassie massicce, dall’interno verso l’esterno, può aiutarci a far luce sul meccanismo fisico che provoca lo “spegnimento” della formazione di nuove stelle, sul quale gli astronomi stanno dibattendo da tempo», osserva Alvio Renzini, dell’Osservatorio astronomico dell’INAF di Padova, fra i coautori dello studio (fra gli astronomi dell’INAF che hanno preso parte alla ricerca, oltre a Renzini, ci sono anche Gianni Zamorani dell’Osservatorio astronomico di Bologna, Giovanni Cresci dell’Osservatorio astrofisico di Arcetri e Chiara Mancini, sempre dell’Osservatorio astronomico di Padova).

Ma perché scoprire che l’esaurirsi della formazione stellare ha avuto inizio nelle regioni centrali rappresenta un passo così importante nella ricostruzione del meccanismo di spegnimento? Un motivo è che le due principali famiglie di modelli attualmente in gara per spiegare cosa abbia interrotto la formazione stellare si contrappongono, a loro volta, per il luogo d’origine del processo scatenante. Origine esterna nel caso fosse corretta l’ipotesi secondo la quale, a fermare la produzione di nuove stelle, sarebbe stato il venir meno dell’afflusso di gas fresco verso la galassia, privandola così del combustibile necessario. Origine interna, invece, se i materiali necessari alla produzione di nuove stelle fossero stati dispersi ed espulsi, come sostiene una teoria fra le più accreditate, dall’enorme energia emessa dal buco nero supermassiccio al centro della galassia stessa. «La scelta fra questi due meccanismi – espulsione del gas o taglio della fornitura – è un discorso ancora aperto», dice Renzini a Media INAF, «e c’è chi pensa che potrebbero essere necessari entrambi, affinché la formazione stellare abbia termine».

Nessun dubbio, invece, sulle prestazioni dei due strumenti chiave di questo risultato scientifico. Da una parte, la camera WFC3 a bordo di Hubble, le cui immagini nel vicino infrarosso hanno permesso di ricostruire la distribuzione spaziale delle stelle più vecchie all’interno delle galassie con attività di formazione stellare. Dall’altra, lo spettrografo SINFONI del VLT, grazie al quale si sono potute individuare con precisione le regioni di formazione di nuove stelle. Una precisione impossibile da raggiungere se non fosse stato per una tecnologia, nota come ottica adattiva, ideata per rendere i telescopi terrestri competitivi con quelli spaziali. «La cosa sorprendente», commenta infatti, Marcella Carollo, lei pure all’ETH di Zurigo e coautrice dello studio, «è come il sistema di ottica adattiva di SINFONI riesca ad abbattere gran parte degli effetti dell’atmosfera e a raccogliere informazioni su dove stanno nascendo nuove stelle. E che riesca a farlo con lo stesso, identico, livello di precisione raggiunto da Hubble nella misura della distribuzione di massa stellare».

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Fonte: Media INAF | Scritto da Marco Malaspina


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