Gallipoli del Salento leccese e l’olio alle lampade

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Gallipoli del Salento leccese e l’olio alle lampade
di Antonio Bruno*
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Gallipoli, la perla dello Ionio, in fondo allo stivale il tacco d’Italia. Una città che Plinio ricorda con il nome Anxa. Lo stesso Plinio scrive che ai tempi dei greci la città si chiamava Callipoli che significa “Città bella”.
Un’isola, e poi, con il tempo, lo spazio angusto, obbliga a costruire sul promontorio e a collegare l’isola con un ponte nel 1603. Oggi questa è Gallipoli del Salento leccese.
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L’agricoltura di Gallipoli sino al 1200
L'agricoltura, era l'economia principale del Salento leccese. A Gallipoli nel 1200 c’erano le terre pianeggianti e fertili e le serre rocciose! Eccola la coltivazione della vite, ma anche quella dell'ulivo ma solo ai terreni migliori. E nelle zone brulle delle serre? Come non sai cosa sono le serre? Ma no! Non è quell’ambiente creato appositamente per coltivare fiori e piante con le stesse caratteristiche del loro habitat naturale. Non c’era questo a Gallipoli nel 1200. Nel Salento leccese non ci sono montagne e abbiamo chiamato “serre” le piccole colline che raggiungono al massimo i 200 metri sul livello del mare che è il regno della macchia mediterranea e delle rocce calcaree affioranti. Le serre hanno costituito l'estrema risorsa, difficile da porre a coltura. Ecco perché a Gallipoli nel 1200 sulle serre oltre alla macchia mediterranea c’era, forse, qualche bosco.
Federico II di Svevia e Gallipoli
Bartolomeo Ravenna scrive che Federico II di Svevia significò la riconoscenza per fedeltà e dedizione a Gallipoli, ed è per questo che spedì da Palermo un diploma, che concedeva vari privilegi e tra questi che la città di Gallipoli restasse abilitata la cura del lino nel ristagno detto li Foggi, non deve essere sottovalutato questo importantissimo privilegio, perché nel 1200 nel territorio di Gallipoli la semina del lino (e non l’olio) era una delle maggiori fonti di guadagno.
Lo spietramento della Macchia Mediterranea del 1500 e 1600
Nelle serre c’erano pochissimi centimetri di terreno tra le rocce affioranti dette chiancareddhe (che nel dialetto salentino significa piccole lastre di pietra calcarea levigate). L’uomo iniziò la suo opera di messa in coltivazione e questi terreni furono liberati dalla macchia. Per le rocce affioranti si provvide a toglierle a colpi di piccone.
C’erano le pietre che furono utilizzate per la costruzione di muretti a secco che servirono a delimitare le proprietà oppure per realizzare i furnieddhi con cui si indicano nel dialetto salentino i ricoveri costruiti con pietre informi abilmente sistemate a secco da maestri provetti.
C’è un documento del 1576, custodito a Gallipoli, in cui si descrive questo secolo e il successivo in cui alcune di queste terre furono messe a coltura. L’opera di spietramento dell’uomo continuò anche nei secoli successivi e durò per molto tempo.
Questi territorio erano tutti pascolo e avevano moltissima roccia affiorante, ed è per questo che si piantarono alberi di olivo, gli unici alberi che potevano vegetare in uno strato di terreno così superficiale.
La richiesta di olio per l’illuminazione del 1700
Ma perché si coltivarono gli olivi nelle terre poco fertili? La ragione sta nella circostanza che agli inizi del 1600 l’olivo dava un ottimo reddito, più di quanto fosse stato nei tempi precedenti. Dalle olive veniva estratto l’olio che era utilizzato per l'illuminazione e per la produzione di sapone in tutti i Paesi europei.
Di olio, a livello internazionale, ce n’era tanto ma il migliore di tutti era quello di Gallipoli. Questo olio era assai grasso e pesante che gli consentiva essere utilizzato nelle più svariate circostanze e per quasi tutti gli scopi. Lo sviluppo e la ricchezza arrivarono immediatamente tanto che in pochi decenni, il piccolo porto di Gallipoli era letteralmente occupato da contemporaneamente fino a settanta velieri europei che sostavano li per imbarcare il prezioso carico di olio.
Fu un secolo davvero ricco per il Salento leccese quello del Settecento perché i proprietari di oliveti ed i commercianti di olio di Gallipoli videro una grandissima quantità di danaro affluire nelle loro casse!
E’ facile capire cosa accadde. Tutti i terreni, anche quelli più fertili, per questo ricco mercato divennero velocemente uliveti, ed ecco che ci spieghiamo l’esistenza della foresta degli ulivi del Salento.
Ma le olive per essere trasformate in olio avevano necessità di essere molite ed è per questo motivo che nella città di Gallipoli e nei suoi dintorni si moltiplicavano i trappeti per l'estrazione dell'olio (Frantoi ipogei).
I Frantoi ipogei di Gallipoli
Gli antichi frantoi sotterranei di Gallipoli, interamente scavati nel duro carparo si estendono nel sottosuolo perché la lavorazione delle olive e la produzione dell’olio aveva bisogno di una temperatura elevata e soprattutto costante. Infatti c’era di circa 18-20 gradi perché l’olio fosse sufficientemente fluido per defluire durante la torchiatura.
Non c’era luce sottoterra per questo non c’era né giorno né notte, solo la luce dei lumi e delle torce. Il calore della combustione, quello dei corpi degli uomini che lavoravano in quegli antri e il duro sforzo degli animali si univa alla fermentazione delle olive, il tutto si traduceva in un grande caldo che rimaneva imprigionato dalle pareti della roccia. Lavoravano al caldo mentre fuori c’era il freddo dell’inverno, e la circostanza dell’ingresso del frantoio rivolto a sud lo riparava dall’ingresso del vento di tramontana.
(segue)
Bibliografia
Plinio, Naturalis Historia
Bartolomeo Ravenna, Memorie Istoriche
Pietro Maisen, Gallipoli e suoi dintorni. Tip. municipale, 1870 - 324 pagine
Augusto Benemeglio, Federico II e Giorgio da Gallipoli
Emilio Panarese, Gallipoli, porto europeo dell’olio. In «Tempo d’oggi», I (22), 18/12/1974

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