di Augusto Benemeglio
Chiesa di S. Francesco d'Assisi a Gallipoli (da Wikipedia)
1. Chiese di Gallipoli
Gradita la voce dell’acqua a chi è oppresso da nere sabbie, gradito il ricordo della riviera Nazario Sauro, dov’è la chiesa di San Francesco d’Assisi di Gallipoli, la chiesa del Malladrone, curva di luce nel tramonto, una delle tre sorelle chiese, a pochi passi l’una dall’altra, ciascuna con la loro livrea di carparo, miele e oro scuro.
Le Chiese di Gallipoli da sempre guardano in faccia il mare , poggiano sulle dodici colonne che sorreggono l’isola e guardano costantemente all’orizzonte per accompagnare i propri figli in mare, per sorvegliare il viaggio breve dei pescatori, o il lungo viaggio degli emigranti e dei guerrieri, viaggi dell’incertezza, della fralezza, della caducità dell’uomo, ma anche viaggi di una promessa di pace, benessere prosperità, viaggi della speranza, e del bisogno di stabilità, serenità, terraferma.
Sono chiese, quelle di Gallipoli, come antiche fanciulle, ricche di fascino e suggestioni, templi antichi di Atena, Afrodite, Era, che – scrive Antonio Errico “custodiscono il senso del radicamento ad uno scoglio e della proiezione verso il mare, lo stupore per l’oltre”.
E di fronte a loro, a meno di un miglio marino , ecco un altro mistero, l’Isola de gabbiani, Sant’Andrea, indecifrata e sola nella vaga notte di luna, ch’accende ancora una preghiera che sa di salnitro e speranza.
2. Don Armando Manno
Il 4 ottobre 2005, festa di San Francesco, ricordo il vecchio Don Armando , “papa Mazzola”, celebrare messa, con le mani tremanti (ormai era in pensione da diversi anni), in quella chiesa che l’aveva visto parroco per tanti anni. E poi in sacrestia a ricordare le maratone con don Tonino Bello, il “Caso Gesù” e la “ Santina di Gallipoli”, al secolo Lucia Solidoro, che , insieme, ( fu lui a fornirmi il materiale per il “dramma”) avevamo tentato di far rivivere nel cuore e nelle menti della gente gallipolina portandola sulla scena. C’è ancora la grande fotografia della pulzella di Gallipoli vestita di nero, con le varie reliquie, e un fascio incredibile di lettere (centinaia e centinaia di “grazie ricevute”). E subito dopo , eccoci presso il cappellone del Santo Sepolcro, detto degli spagnoli, fatto erigere dal castellano di Gallipoli, Don Giuseppe De La Cueva, in onore dei soldati spagnoli morti in Gallipoli. E’ lì che ci attende l’altro grande personaggio della chiesa, il Malladrone, la statua lignea crocifissa ormai famosa in tutto il mondo, capolavoro di un frate gallipolino, Vespasiano Genuino, artista religioso del XVII secolo che aveva un grande arco puro nella mente e mani piene d’amore e d’umanità. La “Santina” sembra di nuovo dimenticata, caduta nell’oblìo, mentre il Malladrone accresce la propria famigerata popolarità, è divenuto uno delle meraviglie di Gallipoli ( basta leggere i depliant degli itinerari turistici : “Venite nella città bella, ad ammirare la cattedrale, il mercato del pesce e il Malladrone”).
Il Malladrone
3. Chi è il Malladrone?
E’ uno che non si pentì dei suoi misfatti, nonostante avesse vicino a sé, sul Golgota, “coast the coast”, o meglio croce a croce, Cristo in persona. Il Messia, che aveva invocato il perdono per i suoi nemici, che aveva predicato l’amore per tutta la vita, anche l’amore impossibile – “ama i tuoi nemici… e se ti schiaffeggiano su una guancia, tu porgi anche l’altra”, il più assurdo e il più splendido imperativo categorico del cristianesimo – lo perdonò ugualmente, non poteva non perdonarlo (io credo che Cristo abbia perdonato anche il vecchio Giuda, dice il protagonista del “Giovane Holden”), ma i gallipolini no, non lo perdonarono. Anzi esso, la sua statua fu obiettivo eterno dell’odio un po’ ingenuo e vendicativo del popolo – scrive Oliviero Cataldini – Il popolino sfogava tutte le proprie miserie e sofferenze, sputi, parolacce, sull’orrida maschera del malladrone: “Puh… ci si bruttu ci te cascia ‘utta. . .!ci te vidia de notte, largu sia,!cu sta facce rrignata e cusì brutta,! sarà ca me cacava pe’ la via…!Cazza! ca stringi li tienti, e mosci tutta! la raggia ci de l’anima te ‘ssia…“.
Da bambini ci spaventavamo davvero nell’ascoltare la leggenda de lu Mallatrone, – scrive Giorgio Barba -, quella statua in legno coi vestiti sempre strappati nella Chiesa di San Francesco d’Assisi, raffigurante Misma, il cattivo ladrone, che rappresenta il male della terra”.
E molti poeti lo hanno cantato, a partire dall’autore dei versi citati di Francesco Saverio Buccarella a Luigi Sansò, da Patitari ad Aldino De Vittorio:
“Cu l’occhi tutti russi e spinchiulisciati,/ cu la ucca ca mmoscia strinti li tienti/ ca te la raggia su tutti nvelinati/ cu li capiddri longhi , tutti pandenti,/ te la croce , te coste a quiddra te Cristu,/ pende lu mmalatrone tuttu strazzatu,/ l’ommu tanto fiaccu , marvaggiu e tristu,/ ca pe tanti seculi è stato sputatu. E Aldino ci mette una nota satirica e amara rapportata ai nostri tempi , come tutti i poeti che fanno in qualche modo anche cronaca di costume del loro tempo: “.Osci iddru se vite tuttu cuntentu, /pe stu mundu ca s’have menzu cangiatu,/ cu tantu furtu , omicitiu e rapimentu/ nu è cchiui sulu , mmalatrone tiscraziatu.”
4. Patipaticchia
Mentre un altro personaggio assai odiato nel Salento, in particolare dai galatinesi, il flagellatore di Cristo, detto Patipaticchia, alto, poderoso, folta capigliatura ondulata, barba virile, struttura corporea solida, gambe divaricate per il perfetto equilibrio di chi si appresta a colpire, sguardo fermo ( la statua era in cartapesta, e non mancava di un suo singolare fascino e attrazione) col tempo se ne è andato a finire nei ripostigli della chiesa dell’Addolorata, dove veniva esposto nell’arco di tempo dedicato alla visita dei sepolcri alla furia del popolo (contro la statua si scagliava la collera di uomini, donne, bambini, ficcavano nelle sue carni spilli, chiodi e quant’altro poteva dare l’immagine concreta, fisica e un poco truculenta del dolore, della sofferenza, della ingenua vendetta popolare), ed oggi è stato praticamente dimenticato da tutti, la statua lignea del cattivo ladrone continua ad affascinare e spaventare grandi e bambini nella sua di orrida bellezza, nella sua grandiosità terrificante, e il suo ghigno continua a campeggiare dall’alto della croce nella cappella degli spagnoli, dov’è sepolto il castellano De La Cueva insieme ad altri personaggi illustri del tempo, come Matteo Calò, che partecipò alla battaglia di Lepanto, e vari scrittori e letterati che onorarono lacittà jonica. Ma l’unica vera “star”, da ormai oltre due secoli e mezzo, continua ad essere lui, e la cappella è stata ribattezzata, in suo onore, cappella del Malladrone; frotte di comitive turistiche in ogni stagione dell’anno si portano presso la statua lignea e tempestano di flashes le scure umide ombre della chiesa del poverello di Assisi, quella maschera che è insieme beffarda e disperata, iraconda e grandiosa. “Vedi – indica con la mano Don Armando - quegli occhi rossi, i denti avvelenati, i vestiti stracciati , la rabbia ch’esce da tutta la figura , la rabbia dei senza dio …Vedi, sotto la vecchia mano giudea crocifissa e l’arco della cappella che sfiora trasversalmente quella corda di luce tesa? Ecco, ogni volta che guardi quest’immagine, muore un suono, e l’uomo non rammenta che già un’altra volta fece la stessa cosa, che tradì e non si pentì, e lo farà ancora chissà quante altre volte, fino alla sera ultima che guarderà”.
Insomma, col suo rifiuto nel pentirsi a Cristo (anzi lo derise: se sei veramente il Cristo liberati dai chiodi e scendi dalla croce), si è guadagnato una grande famigerata notorietà, più lui che non il buon ladrone che si pentì e andò in paradiso. E ora eccolo lì, in croce, a guardarci col suo sorriso beffardo, un sorriso che inquieta e ridesta antiche paure, antichi fantasmi del medioevo.
Gabriele d'Annunzio
5. Gabriele D’Annunzio
Però bisogna andare lì, nella chiesa di San Francesco, nella cappella a lui riservata, sotto la sua croce e guardare il suo ghigno nella penombra, per capire tutto ciò. Il Malladrone lo si può capire e ammirare solo col vederlo da vicino, e magari al lume di candela, come usava un tempo e come capitò una sera d’estate a Gabriele D’Annunzio, il vate, approdato nel porto di Gallipoli il 28 luglio 1895. Scrisse sul suo taccuino di bordo: “Scendiamo a terra per fare qualche spesa. Alcuni gallipolini ci offrono di mostrarci il “mal ladrone”. Sembra che questo crocifisso sia il personaggio più importante della città“. Era una sera festaiola , come sempre a Gallipoli d’estate, e c’era un “gran frastuono di banda musicale, di gran cassa, di campanelle come in una fiera”.
Al di la del ponte, sulla passeggiata del corso XX Settembre ( l’attuale Corso Roma), dove “un gran sedile in muratura si prolungava da un capo all ‘altro, la gente stava seduta, di fronte al porto, e guardava i lumi della sera… Il guardiano ci porta nella chiesa, entriamo, accende una candela in cima a una canna e ci conduce in una cappella oscura. Sollevando il moccolo illumina una figura di legno dipinto inchiodata ad un’alta croce. Il fantoccio ha una strana espressione di vita atroce, nell’ombra”.
A D’Annunzio i gallipolini avevano raccontato mille storie sul Malladrone. Ad esempio che aveva sempre i vestiti “strazzati” (strappati, lacerati, ridotti in brandelli) e non c’era verso di cambiarglieli anche cento, mille volte, il giorno dopo tornavano gli stessi. E’ tuttora celebre in tutta la provincia di Lecce, il detto “vai vestito come il malladrone di Gallipoli“, quando si incontra una persona mal vestita o con dei cenci indosso. E inoltre si riteneva che i denti della statua fossero o quelli dell’autore ( Mastro Genuino) o realmente quelli di un condannato a morte, a cui avevano tagliato la testa. E poi altre leggende, che facevano rizzare capelli, come quella di Misma che ogni sera scende dalla croce e vaga per le strade della città per spaventare a morte i disgraziati ritardatari (ad una certa ora si chiudeva il ponte levatoio e nessuno poteva più entrare nell’isola).
6. Umberto Biancamano
E’ evidente che per tutta una serie di motivi, legati anche all’estetica dannunziana, il Malladrone rimase fortemente impresso nell’animo del Vate che lo rievocherà diverse altre volte, ad esempio nel romanzo “La Seconda amante di Lucrezia Buti”:
E mi ricordo del Pugliese di Gallipoli che mi raccontò come una sera entrasse nella chiesa dopo i vespri per vedere “il mal ladrone” e accendesse un moccolo in cima a una canna e s’arrischiasse nella cappella buia e sollevando il moccolo scoprisse in cima alla croce l’uomo; che si mise a sollevare le palpebre, a roteare gli occhi, ad ansimare, e a dibattere le mani confisse con tanta furia che gli rimasero entrambe nei chiodi come due nottole mentre i moncherini gli ricascavano giù.
E poi nel poema la Beffa di Buccari in cui il maggiore di cavalleria D’Annunzio accenna all’eroico marinaio gallipolino, Umberto Biancamano, il prodiere del Mas, con la mano adusa ai timoni, ai cavi e alla scintille azzurre del mare, che era stato uno dei partecipanti all’impresa, uno dei trenta in una sorte! e trentuno con la morte.
Il Vate ne parla come del concittadino dei vecchi crocefissi Misma e Disma. “…nato nella bianca Gallipoli all’ombra dei più pingui ulivi salentini…”.
Il giovane D’Annunzio (allora aveva trentadue anni) in quel periodo iniziava il suo lungo fortunato ma anche burrascoso rapporto con il teatro e con la grande Eleonora Duse, che aveva qualche anno più di lui, ed era gelosissima del poeta. Ma sul panfilo che da Gallipoli lo avrebbe portato in Grecia, un due alberi, di 58 tonnellate, oltre l’equipaggio, c’erano solo uomini: oltre a lui, c’era Scarfoglio, il pittore Guido Boggiani, e il critico e letterato francese Georges Herelle, traduttore delle opere di D’Annunzio. Erano tutti intenzionati ad una sorta di “full immersion” culturale, vedere e descrivere le grandi opere della Grecia antica da cui sarebbero nati grandi reportages, motivi di grande ispirazione, ma in realtà – disse il comandante del Panfilo, Francesco Cacace, si comportarono come un gruppo di scostumati gatti bizantini in calore, stavano sempre nudi in coperta senza fare nulla, e una volta a terra, si gettavano nei porti a cercare donne di malaffare da condurre a bordo, come fanno gli ultimi marinai. E tuttavia a crociera finita, dopo qualche tempo, l’ispirazione fece i suoi effetti positivi su Gabriele, ed ecco, in nuce, “Laus Vitas”, “Alcione”, “La città morta”, quest’ultimo un testo teatrale scritto su misura per la Duse, che amò D’Annunzio con tutto il trasporto di una donna di quarant’tanni dalla dolce bellezza disfiorita, dal temperamento tragico, generoso e ipersensibile. Soffrì molto ed ebbe momenti di disperazione, ma – scrisse Fusero – “finì per sovrastarlo, quale testimone muta dell’infinita miseria del suo egoismo e cinismo”.
Forse al Vate sarà venuto in mente qualche volta la croce dell’infedele Misma e la chiave negat, la smorfia, la beffa tragica, la sarcastica sfrontatezza, il riso beffardo e sprezzante, la spudoratezza popolaresca e picaresca, lo sguardo furbesco, rotto a tutte le avventure e a tutte l’esperienze, la consapevolezza della scelta ineluttabile dell’inferno, con biglietto di solo andata. Chissà che quella disincantata ferocia della maschera gallipolina, alla fin fine non risulti simpatica proprio perché fa parte della storia e della vita dell’uomo e quindi ciascuno di noi può riconoscersi, per quanto piccola, in una parte di se stesso? Ma forse – insinua Errico – c’è anche il dolore , seppellito nel ghigno, forse c’è anche la disperazione, celata nel ringhio,
“e il pentimento inconfessato per il male fatto al mondo, per il peccato contro il cielo compiuto da ogni uomo di ogni tempo e di ogni luogo. Allora, nella penombra, nella temporalità sospesa, sfibrata, rarefatta, il Malladrone crocefisso in San Francesco d’Assisi soffoca ancora il suo pianto e urla il suo giudizio di disprezzo verso se stesso”.