Ne ha chiacchierato il mondo intero come lettura fondamentale per chi, in quel periodo, muoveva i primi passi verso l’universo geek che l’avrebbe avvolto da più grandicello, ma gli anni Ottanta che Ernest Cline sfrutta per il suo esordio letterario hanno un sapore ben diverso da quello che mi ero immaginato. Costruire un intreccio così particolare come quello alla base di Player One (chissà perché nella traduzione si è perso il “Real” del titolo originale) è cosa lodevolissima e ambiziosa, in fondo il rischio di proporre qualcosa di bizzarro, astruso e destinato a pochi è piuttosto alto – bisogna essere realmente parte di un mondo e sinceramente convinti per riuscire a dare qualcosa di buono, aspetto principale che crea l’incredibile fascino di questo esordio. Tuttavia, paradossalmente, non sembra trasparire alcuna passione, dalle parole di Cline, perché tutto sembra soltanto un’infinita, chilometrica lista di nomi di serie tv, film, canzoni, videogiochi, libri e quant’altro che vengono sfilati quasi volesse mostrare a tutti quanto è nerd.
Ora, io lo so che in realtà le intenzioni di Cline non sono queste, l’amore per gli eighties e la cultura pop è chiara e palese (si sta pur sempre parlando dello sceneggiatore di Fanboys), ma la sua prosa è talmente superficiale e la sua tecnica così imbarazzante che ogni buon proposito svanisce di fronte a frasi acerbe, lunghissimi spiegoni, un’assoluta mancanza di ritmo e crescendo, dialoghi adolescenziali e retard e, più in generale, una grossa, imperdonabile faciloneria nella gestione della trama. Enormi, enormi difetti, insomma, perché la sua pochezza stilistica, l’incapacità di strutturare una storia, la totale negligenza nel personalizzare i suoi protagonisti, il completo tell and don’t show di cui è farcita l’opera trasforma la citazione di quegli anni e, in secondo piano, di certa cultura nerd che sborda negli anni Settanta e Novanta, in qualcosa che trovo quasi scorretto nei confronti di chi legge.
In qualsiasi altra occasione un romanzo del genere, soprattutto pensando alla sua estenuante lunghezza, l’avrei abbandonato dopo il primo capitolo, non serve poi molto per rendersi conto della scarsa abilità che ha Cline con le parole e con una qualsiasi impalcatura narrativa, ma con Player One dovevo in qualche modo arrivare fino in fondo (ehi, leggendo veloce, saltellando qua e là e dimenticandomi magari di qualche pagina, per carità, e poi mi sono risparmiato le ultime trenta pagine una volta capito come sarebbe finito), perché volevo capire quali fossero gli elementi per i quali viene incensato universalmente. E, be’, non ne ho trovato nessuno, a partire dalla sua punta di diamante e veicolo pubblicitario.
Lo scenario tratteggiato, questo futuro sfasciato e lasciato allo sbando, è blando e incolore, e ancora peggio è Oasis, il gioco totale, una realtà virtuale che è più reale della realtà stessa, dove è stato ricostruito digitalmente tutto quanto con interi pianeti dedicati a canzoni, film e serie tv, un universo assai scialbo, descritto con un lessico poverissimo che non rende alcuna giustizia alla vastità del videogioco assoluto. Tutto è presentato con un pressapochismo irritante, tutto è raccontato banalmente uccidendo di colpo qualsiasi sense of wonder e negando al lettore il minimo, minimo stupore.
Perfino il protagonista risulta tanto irritante da meritare, assieme ai suoi amichetti gnegne, solo odio e disprezzo dopo poche pagine: Wade sa fare ogni cazzo di cosa, è il re dei nerd in una visione talmente esagerata che il livello di sfida, così come non è percepito da lui in nessuna quest affrontata, è bene o male ignorato dal lettore stesso. Wade conosce ogni trucco, caratteristica, segreto, chicca di TUTTI, TUTTI, TUTTI i retrogames, riuscendo a concluderli senza alcuna fatica. Come se non bastasse ha visto, ascoltato e letto più volte QUALSIASI prodotto uscito negli anni Ottanta, dalla Famiglia Keaton ai Rush, da D&D ai tokusatsu e passando per Robotech (anche se, in quanto nerd, avrebbe dovuto schifarlo perché assurda rielaborazione statunitense di ben tre serie animate del tutto diverse e non collegate tra loro), e conosce a memoria ogni singolo fottuto istante della vita del suo mentore James Halliday, l’inventore di OASIS, immagino anche quante volte al giorno faceva la cacca, mi sa, e tutto questo nonostante abbia solo diciott’anni, e insomma, okay che vive in un mondo postapocalittico e in malora senza speranza e blablabla e non ha altro da fare se non rimbecillirsi di fronte al pc, ma le basi di partenza, c' poco da fare, nel loro voler rievocare a tutti i costi, ma senza esserne in grado, lo spirito sincero, puro e passionale della tipica storia teen di una volta, sono pretestuose e già insopportabili, e quanto segue è stata, per me, solo una continua, incessante, serie di mazzate sugli zebedei.