Un’altra partita. Una vittoria e si va avanti. Nessun continue? 9 8 7 6 5 4 3 2 1 appare nello schermo; solo Game Over, chi perde, muore. Muore sbudellato, decapitato, esploso, crivellato (normale per milioni di videogiocatori abituati a Resident Evil o al più recente Dead Space). Ma qui il personaggio giocato si consuma, diventa inanimato per sempre, perdendo l’occasione di salvare il mondo o la propria vita, oltre che la partita. Ha un solo gettone. Sprecato questo, rimane il cadavere, intrappolato in una rete di livelli che resteranno inesplorati. Una vita umana. Gli avatar sono esseri vivi nella realtà, non sono complessi agglomerati di mesh, ma organismi costretti a muoversi, sparare, cadere, persino ballare in seguito ai comandi di un ragazzino troppo spensierato per comprendere il peso di quelle azioni. Videogame e cinema hanno intrecciato sapientemente i propri destini fino a convergere in un fondo comune da cui attingono soggetti e trattamenti. Gli autori di Gamer (2009) si sono spinti oltre: hanno creato un film-gioco, dove lo sfasamento tra finzione ludica, finzione cinematografica e realtà ha mescolato i colori primari per descriverne le sfumature. Kable (Gerard Butler) un detenuto condannato a morte, diventa un mito mondiale, un super-soldato con ventisette vittorie di fila su una nuova piattaforma real-virtuale “Slayers”, il futuro delle artefatte console nostrane. Conseguite le trenta vittorie, il nostro avatar otterrà la libertà nella vita reale dove latitano la moglie e la figlia. Il suo isolamento frantuma la veridicità fisica, proprio per focalizzare tutte le speranze sul personaggio multimediale fino al raggiungimento della meta, crocevia fondante della sua identità di uomo libero, marito e padre. Ma il raggiungimento dell’obiettivo dipende pur sempre dal giocatore; obiettivo, che sebbene abbia motivazioni differenti (libertà e fama) li accomuna: le trenta vittorie. Non si tratta né di empatia né di umanità: solo di finire il Gioco. Si tratta solo di raggiungere un luogo segnato nella mappa di cui abbiamo sempre posizione e distanza aggiornata: unico prerequisito richiesto non incontrare la morte, almeno la propria, inestricabilmente finta e vera.
Ma un mondo in continua proiezione di immagini pubblicitarie su ogni forma di muro e di spazio commerciabile, non può certo esaurirsi nello spettacolo della guerra simulata / carneficina gratuita / morte in video. L’altro grande elemento che governa la Terra, sprofondata nell’uccisione del senso comune e della moralità dell’individuo (elemento che comporta la perdita della propria volontà, proprio perché non più padroni del nostro corpo), è il sesso. Una struttura virtuale, Society, similare alla prima, con una propria piattaforma, che sembra essere più debitrice all’idea della sottomissione sessuale, quindi ad un’idea reale, che ad uno specifico videogame. E proprio in quest’altro Piano, lavora la moglie di Kable, Angie (interpretata da Amber Valletta), comandata da un pervertito obeso, stereotipo importante perché anela una nuova immagine nel mondo moderno dell’apparire sopra l’essere (presente anche ne Il mondo dei replicanti - Surrogates, uscito nello stesso anno e diretto da Jonathan Mostow), che la costringe ad approcciare altri fantocci con scopi chiaramente sessuali. Ciò incrementa a sua insaputa l’intreccio narrativo del gioco che vede Kable protagonista anche di un’invasione di campo per salvare la moglie. Il suo destino si lega a filo doppio con quello del giocatore che lo interpreta, Simon (Logan Lerman), con cui Kable, tramite un virus inviato da un gruppo di rivoluzionari, gli Humanz, riesce a dialogare e a concordare di essere lasciato libero di muoversi. Così a Simon non resta altro che guardare una sorta di demo, dove il gioco prosegue autonomamente, ma che in realtà promuove la volontà precisa di Kable, in grado come solo nei videogame e nei film USA, di distruggere un sistema imponente e ben organizzato. La scelta volontaria di Kable vince contro la predestinazione della sua sconfitta, perché i programmatori non avrebbero permesso il suo successo.
Cosa che solleva due questioni alquanto interessanti che ci permettono di arrivare al nocciolo del problema. La prima concerne l’utilizzo di carcerati come merce da circo, tema che a quanto pare piace parecchio ai produttori americani. Da The Condemned – L’isola della morte (2007) a Death Race (2008) fino a Gamer, la sostanza non cambia. Un detenuto, dentro perché incastrato, si trova a lottare contro gli altri per la propria sopravvivenza e libertà a discapito di quelle altrui, in mondovisione. Tutti i protagonisti dei lungometraggi sopracitati devono fare inoltre i conti con villains potenziati da bonus vari che cercano di evitare la vittoria dell’eroe, colpito prima dagli errori della giustizia e poi dalla brama visiva degli spettatori pronti a pagare pur di vedere la violenza della morte. Ma cosa fare dei detenuti? E soprattutto è davvero possibile garantire una nuova integrazione ad un individuo costretto, per ottenere la libertà, ad uccidere i propri simili o a correre contro macchine della morte? Il Vietnam dovrebbe insegnare. Semplicemente ai fautori di tali spettacoli e alle fonti governative, che dovrebbero promuovere una supremazia della vita, non importa. Eventuali traumi restano elementi contingenti. The Show Must Go On, oltre l’uomo.
In seconda battuta è bene osservare come la struttura capitalistica in questione prenda forma; come cioè possa essere minimamente concepibile o cinematograficamente accettabile l’idea, di Mark Neveldine e Brian Taylor (autori di soggetto, regia e sceneggiatura), che tutto sia riconducibile al controllo di un unico individuo: Ken Castle (Michael C. Hall, reso celebre dall’interpretazione di Dexter) creatore delle piattaforme sviluppate grazie all’impianto di nano cellule all’interno del cervello, che permette tramite un sistema di indirizzi IP di ricevere impulsi e comandi. Castle ottiene le concessioni necessarie sviluppando un accordo con le forze governative americane, alle quali verserà parte degli introiti per la costruzione e fortificazione del sistema carcerario USA: compromessi sicuramente redditizi ma affrettati, perché segnano la fine dell’essere umano. Il tema del progresso e dello sviluppo di strutture in grado di controllare la massa-uomo spopola in diversi media creando un vero e proprio genere. Il pericolo di espansioni senza freni nella tecnologia crea uno strato di consenso tramite un uso di intrattenimento (come nel caso del film), ma anche nell’impianto di innesti per le migliorie fisiche come nel caso del videogame di culto Deus Ex, uscito nel 2000 e nel remake recente Deus Ex: Human Revolution. In questo addirittura nasce un dualismo tra gli sviluppatori del sistema di potenziamenti che davvero credono nella possibilità di perfezionare la vita dell’uomo, anche attraverso una pratica s-naturalizzante e chi invece vuole usare gli stessi con scopo di controllo sulla massa, resa inerme di fronte alla propria vita. Responsabilità e autonomia; Castle afferma: «Non pensi che in molti non disdegnerebbero un po’ di controllo? Qualcuno che prenda la decisioni per loro? Nessuna scelta difficile, nessuna responsabilità. Pensateci bene».