Ho letto i racconti di Gao Xingjian in un solo giorno, da mattina a sera. Era la primavera dello scorso anno e ricordo che ebbi la sensazione di rimanere cieco di fronte a tanto chiarore. Il titolo della raccolta era Una canna da pesca per mio nonno, i racconti narravano della visita a un tempio in rovina da parte di due sposi in luna di miele, di un incidente stradale, del crampo che opprime un nuotatore in mare aperto, di un ragazzo e di una ragazza che si ritrovano in un parco dopo molti anni, dell’acquisto di una canna da pesca capace di resuscitare il mondo dell’infanzia, dei pensieri che attraversano la mente di un uomo che si assopisce sulla spiaggia. Prima di quel giorno non avevo letto niente di questo autore, il primo scrittore cinese a cui sia stato assegnato il premio Nobel per la letteratura. Il motivo della sensazione di cecità che provai è presto detto: la sua scrittura è candida, ma di un candore che non ha quasi niente a che fare con la parola scritta. Le sue frasi hanno la consistenza di un uccello tremante nelle mani di un bambino, le lettere stampate tendono a scomparire fisicamente dalla pagina, a confondersi col bianco della carta, fino al punto da trasformarsi in una melodia, o in uno stato d’animo, o in uno stormo di angeli che prendono il volo. Mai, prima di Gao, mi è capitato di provare una simile sensazione al cospetto di una narrazione. Qualche mese più tardi, un altro grande autore contemporaneo cinese, Ma Jian, mi raccontò un aneddoto che riguardava proprio Gao Xingjian. Ma Jian mi disse che Gao, prima di scrivere, aspettava che la moglie fosse addormentata e poi seppelliva i suoi testi in giardino, perché non voleva che lei fosse testimone dei suoi reati intellettuali. Scoprii così che quell’accecante leggerezza che mi aveva quasi stordito in un giorno di primavera era considerata dal governo cinese un’infrazione, o peggio, un crimine da occultare perfino ai componenti della propria famiglia. C’erano persone, dunque, che in quelle parole tessute di luce scovavano una minaccia fatale, nociva all’uomo e alla comunità di una nazione. Ho ripensato allora ai versi di un grande poeta, Eugénio de Andrade: “Sono come un cristallo, / le parole. / Alcune, un pugnale, / un incendio. / Altre, / rugiada appena”.