Mario Turco
Potrebbe essere un’epica storia di liberazione, di patriottismo cosmopolita che tracima i confini tracciati dai burocrati e dalle carte geografiche, di uno statista illuminato che spalanca le porte del Paese al progresso, e invece è “solo” la storia di un regista che, trovatosi in Indonesia per realizzare un documentario commissionatogli sulle arti marziali, scopre la vena aurifera di stuoli di stuntman che girerebbero le scene più arrischiate pur di usurpare il trono dell’invisa Thailandia di Tony Jaa. Stiamo parlando dell’ultimo fenomeno del cinema action, un ragazzone dalla faccia stolida e dalla corporatura massicciamente goffa che sta dietro il film presentato da uno di quei trailer che, lo vogliate o no, vi troverete a dover skippare nel 2014 durante la navigazione nei vostri siti gossippari di riferimento: The Raid 2: Berandal. Gareth Evans, questo il suo nome, è da quasi due anni il nuovo santino della Rete e un Salvatore per gli appassionati più propriamente del genere. Genere che gli americani, indiscussi maestri, hanno, con la loro solita eccedenza ormonale, ridotto da una tronfia esibizione di muscoli e botti (gli Ottanta), prima a una expo tecnologica (i Duemila), poi al revival di ossa rottamate (I mercenari, I mercenari 2 e I mercenari 3, sempre se non ne muore prima qualcuno). Evans con appena due pellicole è riuscito a smacchiare un filone sporcato dalle esigenze di produttori sempre più invasivi, da studios che replicavano pedissequamente la stessa formula, convinti della glabra ingenuità del pubblico di riferimento e dalla mancanza di discernimento di quello più barbuto.
Non siamo però alle prese con l’epifania di un miracolo fatto di cazzotti, anche se il clamore suscitato dall’autore gallese fa capire quanta merda (passatemi il francesismo) abbiano dovuto digerire gli estimatori di questo tipo di cinema. Per questa rinnovata erezione fancalcista è bastato un regista vero che filmasse due storie che fanno risolvere alle arti marziali gli snodi fondamentali della vicenda, niente di più. La differenza con il solito beverone iperproteico ma privo di gusto degli anni recenti è lapalissiana. Partiamo con Merantau (2009) che in quanto opera prima, si suppone, è fondamento dell’estetica di Evans. I primi venti minuti del film non segnalano rotture di sorta con i numerosi antecedenti. Solito assolo di allenamento di Yuda, solita idealizzazione bucolica della campagna, solito viaggio iniziatico del protagonista (il suddetto Merantau). Si notano i primi segni di una regia elegante, sicura e dalla mano impavida, come la carrellata all’interno del pullman o la scelta di visi intensi e appropriati per i ruoli (non sono necessari grandi attori per evitare la piaga hollywoodiana del miscasting). Con l’arrivo nella metropoli di Jakarta l’opera assume una forma imprevista. La frustrazione di Yuda si accompagna a quello dello spettatore da birra in mano: al di là delle coordinate iniziali, Iko Uwais non sfodera nessun numero circense e perfino quando deve scavalcare una staccionata lo fa senza esibizioni atletiche. Il suo viso dimesso, il suo tono di voce pacato, il suo atteggiamento buono contrastano con la sordidezza di una città che lo accoglie malamente. I riff di chitarra triste, due note appena in una distorsione settata su “suono piangente”, rendono l’alienazione urbana a cui va incontro il ragazzo degna di confronto con un film di Alejandro González Iñárritu.
Yuda non cerca il compiacimento carismatico del pubblico: quando si trova a dover affrontare il primo vero combattimento dopo trentacinque minuti di pellicola si destreggia per appena quaranta secondi e poi viene atterrato inesorabilmente, soverchiato realisticamente dal numero degli sgherri a lui opposti. Merantau chiede quindi di essere giudicato globalmente come lungometraggio e non esclusivamente dalla novità dell’arte marziale proposta, il silat, né dalla sua intensità. La disciplina indonesiana, infatti, non spodesta né il muay thai né il kung fu, ponendosi piuttosto come un efferato equilibrio tra i due. Evans dal canto suo colpisce sia come regista che come sceneggiatore. Oltre a una maturità stilistica invidiabile, con la telecamera che compie bei movimenti (riprese dall’alto, carrellate, pedinamenti, uso parco della steadycam) che deliziano l’occhio, l’autore gallese mostra alcuni vertici di scrittura. Il villain, interpretato da un valente Mads Koudal, fa tornare alla mente il fascino del male di tanto cinema di John Woo. E almeno altre due sequenze sarebbero piaciute per l’andamento surreale dell’ultraviolenza al buon Tarantino, oltre al fatto che la presentazione del boss, con la demarcazione letteraria tra un uomo d’affari e un criminale che fa affari, sembra derivare di peso dalle sue prime riuscite sceneggiature. La padronanza di mezzi dell’autore gallese è così consapevole di sé che egli si permette di perpetuare anche i tòpos più ingenui. Si noti la calcata nota epica, che risalta ancor di più in uno svolgimento sin lì molto realistico, della scena dell’ascensore. Sia il combattimento in un ristretto cubicolo d’acciaio che il successivo sacrificio di Eric bersagliato da decine di pallottole come nemmeno Tony Montana, rappresentano l’onesta voglia di misurarsi (per migliorare) con tutte le componenti del genere. In fondo, la storia di Merantau non è che la classica vicenda dell’eroe per caso che, proveniente dalla campagna, sconfigge il traffico clandestino di prostitute. Più che per novità radicali questo esordio si segnala allora per l’estrema pulizia formale, l’intelligente messa in scena e il pessimismo inaspettato che fa sì che il protagonista bagni col proprio sangue l’intromissione in un contesto squallido.
Quanto Evans sia lontano da intenti distruttivi ma piuttosto voglia porsi come rinnovatore di un cinema scivolato nella mediocrità lo dimostra il successivo The Raid: Redemption (2011). Girato ancora una volta a Jakarta, questo suo secondo film d’azione si vuole porre come una summa del genere. Il regista parte dall’archetipo del raid che un manipolo di poliziotti esegue all’interno di un palazzo controllato interamente da un signore della droga. La narrazione è basica ma non assente, come hanno falsamente segnalato Roger Ebert e parte di quella critica sempre pronta a bastonare qualunque fenomeno web. Pochi fronzoli psicologici, caratterizzazioni stereotipate ma convincenti, tradimenti e corruzione nella polizia: questo non è il pretesto ma il contesto di forsennate scene di lotta. Appunto, le scene di lotta. Alcune coreografie sono tutto sommato ripetitive (Iko Uwais e Yayan Ruhian, rispettivamente protagonista e antagonista, nei panni di Mad Dog, sono nuovamente gli stunt-coordinator) e la scelta di puntare sul realismo piuttosto che sull’atletismo puro paga un po’ in uno sfondo così adrenalinico. Ciò che invece è forsennato è il senso del ritmo del regista che non sbaglia un’inquadratura nemmeno in un set così limitato. La possibilità offertagli dalla trama di puntare su una costante linea di tensione (Tama scaglia tutti gli inquilini del palazzo contro i poliziotti) gli permette di fare della sua opera un’ininterrotta minaccia squarciata da lampi di violenza sopraffina.
A tal punto si rivela funzionale anche la scelta della produzione americana di affidare lo score musicale a Mike Shinoda, rapper dei Linkin Park, e Joseph Trapanese che con la loro elettronica minimale pronta ad esplodere in eco dubstep assecondano questo lato della pellicola. Evans questa volta raggiunge picchi horror nelle sparatorie e nei combattimenti, spalleggiato da un cast di stuntman che esegue numeri pericolosissimi sfidando sfrontatamente il rischio di paralisi e/o mutilazioni. Gente che atterra di schiena dopo una capriola sulla balaustra, che rompe le mattonelle a testate, che sbatte contro spigoli e sporgenze: raramente si era visto al cinema un tal sprezzo del dolore umano. Ma, come detto, The Raid: Redemption è più di “un documentario sulla resistenza del corpo umano alle botte”. Il regista gallese padroneggia tutta questa maniera pulsante avendo sempre ben chiara la sua idea di cinema, non sbilanciandosi mai eccessivamente nella direzione action né in quella estetica. Anche il risolutivo scontro finale tra i due fratelli e Mad Dog risalta più che per la sua lunghezza per il suo carattere catartico, come scioglimento motivato di premesse ben raccontate. Il sequel di The Raid è ormai prossimo. Questa volta non è un trailer montato bene ad eccitare spasmodicamente l’hype: noi abbiamo fiducia in Gareth Evans!