Il grande libro della Storia è ricco di biografie di personaggi che, anziché aderire a criteri scientifici di stesura, appartengono al genere fantasy delle agiografie, cioè le gesta dei santi considerati modelli di virtù da seguire. Provare ad applicare un po' di sano criticismo allo studio delle suddette biografie significa spesso attirarsi accuse di oltraggio, sacrilegio o addirittura, come nel caso di Garibaldi, di vilipendio; come se nel mondo esistessero uomini perfetti o infallibili.
I manuali scolastici,
quando si soffermano sul Risorgimento, tralasciano di considerare le
motivazioni contingenti che indussero l'«Eroe
dei due mondi» a
impegnarsi in un'impresa apparentemente folle e disperata quale la
spedizione dei Mille. Nel gennaio del 1860, solo cinque mesi prima
della celebre partenza dallo scoglio di Quarto, Giuseppe Garibaldi
era divenuto lo zimbello della Penisola, l'abituale oggetto di
scherno nei salotti mondani. Persino Vittorio Emanuele II, che tanto
«galantuomo»
non era data la scabrosa e per niente segreta relazione intrattenuta
con la plebea Rosa Vercellana (la «Bela Rosin»), soleva
sbeffeggiare il condottiero nizzardo, forse perché, per una volta,
il sempre nutrito gruppo dei pettegoli italici sarebbe stato distolto
dai rumors
sulla chiacchieratissima vita privata del Re di Sardegna.
L'opinione
pubblica nazional-popolare cristallizzerà il mito amoroso di
Garibaldi e Anita, quando in realtà il generale visse avventure
sentimentali continue e impetuose, tutte caratterizzate da un
paradosso evidente: attratto dalle nobili benestanti (fra le tante la
duchessa di Sutherland o la baronessa Esperance von Schwartz), finiva
per procreare con le popolane. Nel 1859 ebbe una figlia dalla sua
cameriera, Battistina Ravello. Ne approfittò per certificare la
moglie di Anita, morta dieci anni prima fra le paludi malsane di
Comacchio, cercandone e trovandone il cadavere alle foci del Po.
Legittimare la sua vedovanza costituiva il via libero legale per
contrarre un nuovo matrimonio.
La
scelta cadde sulla diciassettenne marchesina Giuseppina Raimondi.
L'aveva incontrata nel giugno 1859 sulle rive del romantico lago di
Como e lì l'aveva stupida con una cavalleresca dichiarazione d'amore
in ginocchio, venendo però respinto dalla fanciulla. Sarà tuttavia
la stessa Giuseppina a rifarsi viva qualche mese più tardi,
manifestando il suo assenso all'unione; ma questa volta fu Garibaldi
a tergiversare, adducendo scuse quali la differenza di età
(Garibaldi aveva allora cinquantadue anni) e il suo carattere
malinconico. Accadde però che il buon Giuseppe, ospite nella tenuta
dei marchesi Raimondi nel Comasco, incorresse in un brutto incidente
a cavallo che lo costrinse a rimaniere a letto per tre mesi in casa
di Giuseppina, «prigioniero» dell'avvenente fanciulla e del di lei
padre, fan sfegatato del generale. Fu così che il 24 gennaio del
1860 i due colombi convolarono a nozze.
Terminata
la funzione religiosa nella cappella di famiglia, una volta benedetta
solennemente la coppia, Garibaldi ricevette brevi
manu
una lettera in cui la neo-sposa veniva accusata di infedeltà
ripetuta: pare che Giuseppina si intrattenesse con ben due amanti,
uno dei quali, il bergamasco Luigi Caroli, l'aveva ingravidata poco
tempo prima delle nozze. Era stato presumibilmente il marchese-padre
a pianificare il matrimonio-riparatore con l'«Eroe dei due mondi»
nelle vesti di marito-fantoccio.
Incalzata
dallo sposo, Giuseppina ammise immediatamente la sua colpa. A questo
punto, sulle reazioni a caldo di Garibaldi circolano voci
contrastanti: per alcuni egli si sarebbe cavallerescamente limitato
ad apostrofarla con la frase «Marchesa, voi siete una sgualdrina»,
ma secondo altri il generale le avrebbe addirittura messo le mani
addosso. Fatto sta che i coniugi non si rividero più e per Giuseppe
cominciò una sorta di «gogna mediatica» finché il siciliano
Francesco Crispi non lo persuase a intraprendere la spedizione più
importante della sua vita, cinque mesi dopo.
Garibaldi
probabilmente pensò che un'avventura del genere avrebbe certamente
riscattato il suo onore ed ebbe ragione: in fondo, oggigiorno, la
storiografia ufficiale parla dei suoi Mille e non delle sue corna.
Natale Zappalà
(Articolo tratto dalla rivista CostaViolaInforma n. 5, Anno 2, Dicembre 2011)





