Preveggente, da questo punto di vista, era stato Topolino, che nei numeri di luglio aveva raccontato una storia che si svolgeva alle Olimpiadi di Londra in cui gli atleti di una nazione risultavano modificati geneticamente da una macchina che li rendeva indistruttibili e infallibili: mostri, più che "esseri umani". Vengono in mente anche Gattaca e Blade Runner, nei quali si racconta di un'umanità modificata, nel primo attraverso la costruzione genetica che preordina la vita di ognuno, eliminando ogni vincolo di scelta, nel secondo attraverso la costruzione di macchine simili e migliori dell'uomo per gli aspetti meccanici, ma diversi per aspetti sentimentali più umani. Similmente, queste Olimpiadi sembrano aprirsi, volontariamente nel caso del sudafricano, illegittimamente per la cinese, ad un'era diversa per lo sport. E preoccupa la necessità di pensare lo sport e le competizioni internazionali come una sfida sempre più tecnologizzata e sempre meno umana, perché l'evoluzione genetica trasforma gli uomini con i loro difetti e le loro particolarità in macchine ben costruite, ma limitate ad quell'unico aspetto della competizione olimpica che devono vincere.
La riflessione riguarda quest'aspetto, perché conduce la competizione sportiva all'opposto di quello che dovrebbe essere e, più che spostare l'asticella dei limiti umani, frantuma l'umano sotto l'ordine meccanico. Si apre una nuova era, se vogliamo, sia perché le modificazioni genetiche tolgono umanità alla vita degli atleti, sia perché nella decisione di far competere Pistorius con i normodotati si respira una condizione simile, in cui è sempre la meccanica ad agire sul corpo dell'uomo. Alcune domande sorgono inquietanti. Dov'è il limite che l'aiuto meccanico può fornire all'atleta, se nel caso di Pistorius un corridore non ha una parte delle gambe e sostituisce l'assenza con arti meccanici? Dov'è l'umanità di atleti costruiti in provetta solo per vincere una gara? La vita è tecnica e meccanica o anche qualcos'altro? Il caso di Pistorius, inoltre, ci colpisce perché proviamo un'umana compassione per un atleta sfortunato e che ha saputo lottare contro i limiti fisici, ma la sostanza non cambia. Vederlo competere con atleti normodotati può esaltarci per quel messaggio di superamento dei limiti dell'umano, ma apre prospettive incerte sulle modalità di superamento dell'umano.
Situazioni inquietanti e affascinanti, quelle portate da questi due esempi; esse, infatti, non interrogano solo la natura dello sport come manifestazione di un miglioramento di sé, ma la rilevanza del modo in cui questo viene fatto. Se lo facciamo geneticamente o meccanicamente, potrà essere affascinante, ma forse è un'altra categoria. Forse è un'altra storia.
E vi aggiungo quella preoccupazione che scrivevo prima: sostituendo la macchina all'uomo, siamo sicuri che tutto sia "più perfetto"? Siamo sicuri di saper fare le cose meglio della natura? Di fronte alla storia naturale, infatti, la storia umana è spesso un ammassarsi di fallimenti ed errori.