A pochi giorni dalla morte di Arrigoni, però, mi tocca constatare che l’evento ha avuto come unica conseguenza quella di smuovere la tenue patina di polvere che negli ultimi mesi si era a poco a poco andata a posare sull’odio — mentre le tensioni si moltiplicavano altrove, tutt’attorno, e Rafah scivolava via in un lungo piano sequenza. Oggi l’obiettivo è tornato brevemente a fissarsi su quei pochi ettari di terra: c’è chi grida al complottone israeliano, chi prega di notare il genocidio ignorato (il genocidio del boom demografico, come fa notare il buon Shylock), chi adocchia con sospetto la partigianeria di un cooperante. Si è tornati allo scontro, e anche chi affronta la vicenda nelle maniere più sottili, caute, persino tangenziali, dietro alle spalle si ritrova il tifo da stadio: pronto ad avventarsi sulle sue parole, farle a brandelli e ostenderle ovunque, reliquie a testimonianza o scandalo della propria parte di giustizia.
I cori del Napoli in quel lembo di Mediterraneo hanno un senso, dunque. Innanzitutto, il conflitto arabo-israeliano polarizza perché a questo tutti siamo abituati: a parlarne, come del calcio. Non c’è specialità della Terra Santa che non sia stata evocata – lo scontro di civilità, il valore simbolico di luoghi contesi da secoli -, ma infine tutto si riduce alla parola, alla nostra logorrea, che incita ad esprimersi anche chi non conosce, magari prendendo a prestito le parole di altri, altrettanto logorroici.
L’incapacità di mantenersi lucidi non si limita tuttavia al brusio di fondo. Le prese a prestito di interi paragrafi con impianti accusatori sempre più improbabili trovano la loro giustificazione proprio in chi, più bravo o diligente di altri, quei paragrafi li ha costruiti con intento altro dalla documentazione del conflitto. E ancora una volta si apre davanti agli occhi, in tutta la sua ineluttabilità, l’unica verità che non avevi ancora saputo riconoscere: che ogni Sud, ovunque, ha bisogno del suo capo curva.
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