Magazine Psicologia
I bambini di oggi appartengono alla cosiddetta generazione dei “nativi digitali” o, come si dice ultimamente, dei “mobile born”, ossia bambini venuti al mondo nell’era iper-tecnologica, quella in cui è normale scorrere il ditino sul touchscreen per selezionare l’app con i giochi, passare almeno due ore al giorno davanti alla TV, fare finta di chattare su whatsapp e imparare le tabelline su youtube...
Così come per i bambini è assolutamente naturale familiarizzare con i dispositivi tecnologici, entrati ormai a pieno titolo nell’uso comune, è altrettanto comprensibile che ad essere più digitali non siano soltanto i piccoli ma anche gli adulti, diventati a tutti gli effetti dei genitori 2.0. Essere bambini tecnologici significa anche avere dei genitori che utilizzano gli stessi dispositivi per “interagire” con loro e con il resto del mondo: ecco allora che i compiti per casa si scambiano su whatsapp, mentre le foto di gite, compleanni e i primi dentini caduti si condividono sui social.
Se, da una parte, avere un genitore 2.0 può rendere strafelice un bambino perché gli permette di utilizzare il tablet o di guardare le foto sul palmare, dall’altra parte è proprio quello stesso genitore che spesso parla al telefono e manda le mail proprio quando lui, il bambino, vorrebbe chiedergli tante cose, trascorrere del tempo assieme, raccontargli cosa è successo a scuola, ridere, scherzare, giocare un po’.
Capita frequentemente di vedere genitori che accompagnano i figli al parco e, mentre i bambini corrono, trascorrere tutto il tempo al tablet o al cellulare. Lo stesso vale nella sala di attesa del pediatra o al ristorante, mentre si aspetta che la cena venga servita. Inoltre, mentre la nostra attenzione è rivolta al dispositivo, rispondiamo a monosillabi, senza alzare lo sguardo, magari con tono scocciato perché siamo stati interrotti.
Nel mio lavoro di mediatrice familiare incontro molte coppie di genitori, ciascuna con la propria storia e con le proprie peculiarità; una cosa, però, spesso li accomuna: la difficoltà nel rapportarsi con il partner e con i figli. Frasi tipiche che sento pronunciare sono: “Con lei non si riesce a parlare, sta tutta la cena a mandare messaggini!”, “Quando torno a casa, lui nemmeno mi saluta, preso com’è dal suo computer!”, “I nostri figli si calmano solo davanti alla televisione!”, “Vogliono giocare sempre con il tablet!” e così via…
Cosa manca in tutto questo? La relazione, intesa come scambio e interazione fra due persone. Una relazione è qualcosa che non si può im-porre: si può, semmai, pro-porre, nel senso di cercare, nutrire, costruire e rafforzare nel tempo, passo dopo passo. Al contrario di quanto si possa pensare, non si è affiatati per il semplice fatto di appartenere alla stessa famiglia. La relazione genitore-figlio ha in sé qualcosa di atavico, di istintivo e che va oltre le parole, ma, per quanto naturale, non è scontata - come nessuna altra relazione - e può presentare delle difficoltà.
Nelle famiglie di oggi generalmente ci si vede poco, presi come si è da lavoro, scuola, attività sportive e via dicendo. La sera a cena è forse l’unico momento della giornata in cui condividere qualcosa, che non è solo un pasto, ma qualcosa di più profondo, come ad esempio la propria storia, i propri progetti, le proprie sensazioni. Quante volte, invece, cadiamo nel tranello dei dialoghi stereotipati: “Com’è andata oggi a scuola?” – attimo di pausa – “Bene…” (pronunciato con tono svogliato e senza alzare lo sguardo), “Cosa avete fatto?” “Niente.”. Tipica domanda, tipica risposta.
Quello che propongo è, per una volta, di scambiarsi i ruoli, di provare a mettersi per 10 minuti nei panni di proprio figlio quando, al parco, ci chiede: “Giochiamo insieme a rincorrerci?”, o quando, in attesa dal pediatra, vorrebbe sapere il significato degli opuscoli e dei poster che vede appesi alle pareti, o quando, al ristorante, ci chiede di leggere 3 volte di fila tutto il menù e di spiegargli, con dovizia di particolari, gli ingredienti delle portate principali, o di capire la sera a cena quando una giornata è andata storta e avrebbe voglia di sfogarsi o quando invece, con entusiasmo, ci vorrebbe raccontare qualcosa per cui non sta più nella pelle!
I genitori di oggi sono pressati su mille fronti ed è comprensibili che per lavoro, o anche per semplice svago, la tecnologia si sia impossessata di tutti o almeno della maggior parte dei nostri ritagli di tempo. Così come è comprensibile che conciliare ritmi di lavoro, tempo per i figli, tempo per se stessi e per il partner non sia semplice. “Adesso no, sono impegnato…”, “Dopo, non ora!” “Non lo vedi che ho da fare?!” sono i modi in cui i genitori 2.0 solitamente rispondono. Eppure basterebbe davvero poco per fermarsi, fare un bel respiro, capire che non crolla il mondo e che quei dieci minuti possono fare bene a noi, al rapporto di coppia e alla relazione con i figli.
Non dobbiamo aspettare di riuscire a ritagliarci una giornata intera e nemmeno alcune ore consecutive. Possiamo iniziare dal poco, dal piccolo, dal facile, e accorgerci giorno dopo giorno di come il dialogo migliori, l’affinità cresca, l’affiatamento si rafforzi e con esso il desiderio di stare assieme, anche senza dire/fare niente, ma senza interruzioni e senza essere distanti con la mente: essere semplicemente insieme, per gustarci quell’attimo di compagnia e di piacere di stare con l’altro
I nostri figli non ci chiedono tanto. Sanno gustarsi le piccole cose, come cogliere un fiore, inseguire un insetto, abbracciarci di amore. Sanno che il nostro tempo è prezioso e che ne abbiamo poco, e possono insegnarci che anche un attimo, trascorso assieme, può essere davvero speciale
di Camilla Targher
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Massimo Silvano Galli
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