Gennadij Ajgi
Gennadij Nikolaevič Ajgi, il poeta nazionale della Ciuvascia, nacque il 21 agosto 1934 nel villaggio di Šajmurzino nella Repubblica dei Ciuvasci. Trascorsa l’infanzia nella sua terra natale, è rimasto sempre legato alla cultura ancestrale e alla lingua ciuvascia. Fino al 1969 il suo cognome fu Lisin. Uno degli antenati del poeta pronunciava la parola “chajchi” (“quello”) senza la prima lettera, e così si formò il soprannome di famiglia “Ajgi”. Egli cominciò a scrivere poesie in ciuvascio e pubblicò i suoi primi versi nel 1949. Dal 1952 visse stabilmente a Mosca. Dal 1960 cominciò a scrivere poesie anche in russo, grazie soprattutto all’incoraggiamento di Boris Pasternak, da lui conosciuto anni prima e che diventò suo grande amico. Ma per la sua poesia innovativa Ajgi fu accusato di formalismo e dichiarato persona non grata nella sua Ciuvascia, i cui campi e boschi pervadono la sua creazione. Per dieci anni lavorò al Museo Majakovskij, ciò che gli permise di approfondire la sua conoscenza dell’avanguardia russa della prima parte del XX secolo. La moderna poesia francese (soprattutto Baudelaire) ebbe anch’essa su di lui un’influenza determinante, ma il suo personale panteon includeva anche Nietzsche, Kafka, Norwid, Kierkegaard e molti scrittori religiosi.
Nel 1972 vinse il premio dell’Académie Française per la sua antologia della poesia francese in ciuvascio. Durante gli anni di Brežnev visse in condizioni precarie, mantenendosi con i magri compensi per le traduzioni. Grazie alla perestrojka la sua vita cambiò radicalmente. Gli fu permesso di pubblicare in patria e fu riconosciuto come una figura chiave della neoavanguardia russa. Cominciò a essere tradotto in molte lingue e a partecipare a diversi festival e congressi internazionali di poesia. Visitò quattro volte la Gran Bretagna, sentendo una particolare affinità con la Scozia, dove fece un pellegrinaggio alla tomba di Robert Burns, e con Londra, la città del suo amato Dickens. Sei volumi delle sue poesie sono stati pubblicati in inglese.
Ajgi è rimasto una figura controversa. Scrivendo come tra il sonno e la veglia, egli creò una poesia piena di silenzi, che suggerisce visioni, ansietà e gioie, e che può essere diversamente interpretata. La sua poetica è pacata e semplice, rifiuta la ricchezza del lessico e la retorica di alcuni suoi contemporanei, inoltre è intensamente orale – il pubblico era affascinato dalla sua potente dizione. E’ il poeta del silenzio e della luce. Una delle sue raccolte porta una epigrafe attribuita a Platone: “La notte è il tempo migliore per credere nella luce”.
Tradusse in ciuvascio molta poesia russa, francese, ungherese e polacca e i sonetti danteschi, mentre le sue poesie sono state tradotte nella maggior parte delle lingue europee. Ha ricevuto diversi prestigiosi premi internazionali e nel 2000 è stato il primo a ricevere il Premio Boris Pasternak. Scrive Damiano Rebecchini: “Pur vicina alla lirica francese del Novecento, la poesia di Ajgi è profondamente radicata nella tradizione poetica russa, ispirandosi in particolare all’opera di Osip Mandel’štam e di Boris Pasternak. Caratterizzata da un intenso impressionismo lirico, essa accoglie spesso dalla natura suoni e suggestioni che generano un tessuto fonico e ritmico accentuato dal verso libero, e a volte si muove verso un originale sperimentalismo, in alcuni casi orientato a esplorare la dimensione del sogno”.
“Col passare degli anni è cambiata la mia definizione della poesia, – disse il poeta in una delle interviste. – Prima dicevo: è la gravità della parola, adesso dico: la poesia è il respiro e l’uomo è il respiro. Respiro e ispirazione provengono dalla stessa radice… La poesia è il respiro di Dio. Noi fioriamo / soltanto per un tocco / di un’altra forza benevola e pacata, – ricorda Ajgi, – e l’essenza della poesia è questo tocco… La poesia è eterna… Essa come la neve – esiste dappertutto. Si scioglie, di nuovo cade, ma essa…è. La poesia è la neve. La poesia essenzialmente non cambia. Essa si autocustodisce. Ciò che in essa passa – è un’altra faccenda. E in questo senso la poesia non ha né ieri, né oggi, né domani”.
In italiano alcune poesie di Ajgi sono incluse nelle raccolte Poesia russa contemporanea da Evtušenko a Brodskij, a cura di G. Buttafava (1967) e Antologia ciuvascia. I canti del popolo del Volga, a cura di A. Scarcia (1986).
Gennadij Ajgi è morto a 71 anni il 21 febbraio 2006.
Come di consueto pubblico qui alcune sue poesie nella mia versione.
Poesie di Gennadij Ajgi tradotte da Paolo Statuti
L’ovario
(Dall’omonimo poema ciuvascio)
Ad R. A.
che io sia tra di voi
come polverosa moneta trovata
tra fruscianti banconote
in una lubrica tasca di seta:
potrebbe risonare a piena voce
ma non ha niente su cui battere
quando rombano i contrabbassi
e quando si rammenta
come nell’infanzia il vento fumava
di pioggia in un mattino autunnale –
che io sia
un’attaccapanni verticale
sul quale si possono
appendere non solo cappotti
ma si può appendere anche qualcosa
più pesante di un cappotto
e quando non crederò più in me stesso
che sia viva la memoria
per ridarmi la tenacia
per sentire di nuovo sul viso
la pressione dei muscoli degli occhi
1954
Il cammino
Quando nessuno ci ama
cominciamo
ad amare le nostre madri
Quando nessuno ci scrive
ricordiamo
i vecchi amici
E le parole ormai pronunciamo solo perché
tacere ci spaventa
e i movimenti sono pericolosi
Alla fine – in fortuiti parchi trascurati
piangiamo per le penose trombe
di penose orchestre
Un acero nella periferia della città
quanto silenzio
c’è nell’albero
come se nel mondo intero
ci fosse solo questo acero di settembre!
oh no c’è di più – come una presenza:
tu – davanti a una porta
taci e sai: solo ciò che è «là»
conta più dei concetti
senza una spiegazione… – entrare è possibile
(partenza – pace – oblio)
a un prezzo solo: non vedere più
questo acero di settembre
La neve
Vicino alla neve
i fiori sul parapetto sono strani.
Sorridimi almeno perché
non dico parole
che non capirò mai.
Tutto ciò che posso dirti:
sedia, neve, ciglia, lampada.
E le mie mani
sono semplici e lontane,
e le cornici delle finestre
sono come ritagli di carta bianca,
e là, dietro di esse,
intorno ai lampioni,
turbina la neve
dalla stessa nostra infanzia.
E turbinerà, finché sulla terra
ti ricordano e ti parlano.
E questi bianchi fiocchi una volta
li vidi essendo desto,
e chiusi gli occhi, e non posso aprirli,
e turbinano bianche scintille,
e fermarle
io non posso.
1960
Finestre su piazza Trubna in primavera
A V. Ja.
con gli oscillanti quadrati
della fioritura e del suono
di tutte le mie infanzie, note
alle diafane città abbandonate,
io le toccherò, e le nozze verginali
lo stesso dureranno
senza musica e senza porte;
ardono le profondità
verdastre e cupe,
e piangono là, dietro di esse,
i macellai sporcati dalla pioggia,
caduti su mucchi di pesci;
e di nuovo calpestio e passi –
io sono qui, io sono qui;
calpestio e passi –
una volta per sempre –
come una campana nella nebbia –
– e come pretitoli di acatisti –
io sogno una rossa lacerazione e concentrazione
1961
Silenzio
1.
nell’invisibile bagliore
di polverizzata malinconia
conosco l’inutilità come i poveri l’ultimo vestito
e i vecchi mobili
e so che questa inutilità
al paese è necessaria e me la chiede
fidata come un patto segreto:
tacere come la vita
per tutta la mia vita
2.
Il tacere è un tributo – ma il silenzio è per me.
3.
abituarsi a tale silenzio
come il cuore in azione non si sente
come anche la vita
come qualche suo posto
e in questo io sono – come la Poesia è
e io so
che il mio lavoro è arduo e solo per se stesso
come nel cimitero della città
l’insonnia del guardiano
Da 28 variazioni su canti popolari ciuvasci e udmurti
XVIII
Io canto, ed è come se tra le lacrime
qualcosa balenasse nel fuoco del tramonto, –
io che vado nel vecchio campo
col mio cavallo.
XIX
E nella nebbia
la verde quercia
non ha niente più forte di un ramo
per stormire.
XX
Queste mani e questa testa
resteranno morte in terra straniera
il fumo della locomotiva ci colpisce la faccia,
per perdere la memoria una volta per sempre.
XXI
E a un tratto – quiete, come se
io, per questo, fossi solo al mondo,
e la tormenta fuori, la tormenta nell’orto,
la tormenta nei campi.
XXII
E il giorno s’è quietato, come se
qualcosa fosse morto in esso,
e la volpe dorme ai piedi del monte,
coperta dalla rossa coda.
(C) by Paolo Statuti