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Genova. Per me.

Creato il 20 luglio 2011 da Claudsinthesky

17 luglio 2001, ore 23 circa – via Saffi, Parma (sotto la sede del WWF)

Salgo sulla Panda 750 bianca del 1995.
mamma: “Allora? Com’è andata?”
io: “Mah, tutto ok… Partiamo dopodomani notte così arriviamo la mattina presto. B. non c’era alla riunione, ma, sai, c’erano un sacco di persone di una certa età… dovresti essere più tranquilla, no? C’erano anche delle signore sui 60 anni. Se c’erano loro vuol dire che sarà una cosa pacifica credo… Rilassati, dai.”
mamma: “Va bene, ma che hanno detto? Serve qualcosa?”
io: “No, no. Niente di particolare… B. mi aveva detto che possiamo andare con la sua tenda, poi mi porterò il sacco a pelo di L. se per lui va bene… poi nient’altro. Giusto un cambio. Ah, ecco! E dei limoni… ce li abbiamo a casa dei limoni?”
mamma: “Sì, i limoni ce li abbiamo, ma a cosa ti servono?”
io: “Boh, non so. Hanno detto che i limoni ce li dobbiamo strofinare sugli occhi se lanciano dei lacrimogeni…”

La mattina del 20 luglio 2001 siamo arrivati a Genova, dopo che il nostro pullman era stato fermato e controllato dalla polizia stradale. Un pullman della Rete Lilliput pieno di manifestanti pacifisti di una certa età e di qualche giovane di Legambiente e della Rete Lilliput.
All’arrivo si respira un po’ aria di gita scolastica: non ho mai visto Genova prima di allora, ma la città mi piace. Aiuto B. a montare la tenda in un’aiuola sul lungomare e poi ci avviamo verso Piazza Manin, dove prenderemo parte alla piazza tematica organizzata da Rete Lilliput, Legambiente e Commercio Equo & Solidale.

C’è il sole e, con il mio zainetto in spalla, sono contenta di essere lì e mi chiedo se tutte le preoccupazioni dei miei genitori avessero un senso. Le persone che mi circondano sono serene, gentili, completamente non violente. Scherzo un po’ con le signore che fanno parte del nostro gruppo, che mi prendono in giro per la maglietta che mi ero disegnata, con un angioletto sul petto e un diavoletto sulla schiena.

Arriviamo e ritrovo il mio amico D., di Roma, con cui avevo fatto un campo di volontariato qualche settimana prima e che coordinava i volontari internazionali di Legambiente: ci sono ragazzi francesi, spagnoli, addirittura un giapponese, Tetsuya, arrivati apposta per far sentire la loro voce in modo pacifico, con striscioni e palloncini colorati. La piazza è bella e io sto vicino a Tetsuya che è gentilissimo e mi offre dell’acqua per rinfrescarmi un po’. Il mio inglese non è perfetto e, ora che il corteo si muove, mi riavvicino a B., che, essendo più grande, son sicura che saprà guidarmi.

Ci accodiamo ad uno dei cortei dietro uno striscione e cominciamo a scendere lungo via Assarotti. B., protettivo com’è, cerca sempre di rimanere verso l’esterno del corteo in modo da fare “servizio d’ordine” e mi tiene d’occhio costantemente per paura che mi possa succedere qualcosa. Che cosa può succedermi? C’è solo tanta gente che grida, canta, con le mani dipinte di bianco e bandiere della pace…

Arriviamo in fondo a via Assarotti, dove, mi dicono, c’è la “zona rossa” che tutti vogliono cercare di violare. Delle grate di ferro alte alte e tanti, tantissimi poliziotti in tenuta antisommossa. Ecco, qualcuno si avvicina alle grate ed i poliziotti dopo un po’ caricano con gli idranti. B. è in contatto costante con altri amici suoi che sono in altre piazze e mi tiene informata. “Ecco, lì hanno violato la zona rossa!” “Oddio, ci sono dei manifestanti vestiti di nero che hanno cominciato a fare casino.” “Ce ne dobbiamo andare, torniamo nella piazza perché qua c’è il rischio che ci caricano.”

Io non capisco nulla… Risaliamo verso Piazza Manin, ma l’atmosfera è diversa. Le persone non sono più allegre e tranquille come prima. Poi vedo che ci sono alcuni manifestanti vestiti di nero con la polizia che li insegue. Tutti alzano le mani dipinte di bianco e gridano che sono pacifisti. Ma la polizia avanza verso la piazza.

“Ce ne dobbiamo andare!” mi fa B. e, da allora, ho solo ricordi sfumati: immagini e rumori che mi accompagnano da 10 anni, ma che, al momento, non capivo.

Non capivo nulla.
Non capivo come tutte quelle cose belle che avevo visto poco prima potessero essersi trasformate in tutto quel sangue e quel fumo che vedevo dappertutto.
Io avevo sempre avuto fiducia nelle forze dell’ordine… che succedeva?

Non ricordo bene, non avevo la cognizione del tempo. Quanto tempo era passato? Che ore erano?
Quello che ricordo è una specie di corsa contro il tempo in una città sconosciuta, come un gioco del gatto col topo, correre per non fermarsi perché chi si ferma… è perduto.
Ci allontaniamo da Piazza Manin: la polizia è già passata, ci sono manifestanti vestiti di nero con dei bastoni in mano. C’è veramente un camion vicino a loro? Non mi ricordo. Una donna, sui 60 anni, sul sedile posteriore di una macchina con una gamba sanguinante. Vicino a lei c’è un prete e B. mi dice che si chiama Don Benzi. Ma sono sicura del nome? Ci allontaniamo sempre di più e B. mi dice che stiamo andando verso la stazione di Brignole. Qua le strade sono diverse, sono più larghe, ma il senso di ciò che vedo è lo stesso: fumo, cassonetti e macchine ribaltati, fumo, fumo, delle persone che hanno assaltato un supermarket ed anche qui un sacco di manifestanti vestiti di nero con la faccia coperta.
Vicino la stazione di Brignole incontriamo N., un’amica di B.: è carina, avrà sui 21 anni ed ha un braccio appeso al collo con una sciarpa. “Ma che fai? Vai all’ospedale” gli dice B. “Non posso andare, sennò dall’ospedale mi portano direttamente in questura. Non hai sentito quello che è successo ad altri?”. Ce ne andiamo. N. ci segue per un tratto e poi si ferma a via Tolemaide, dove ci sono le “Tute Bianche” di Casarini. Sembra un campo di battaglia medievale: dappertutto ci sono ragazzi a terra, sanguinanti, con quello che rimane delle loro “armature” fatte di gommapiuma e bottiglie di plastica. “Ricompattiamoci e riformiamo la testuggine”, urla un ragazzo al megafono. I poliziotti sono dietro di loro. B. mi tira per un braccio e mi fa cenno di andarcene. Giriamo nella prima viuzza che troviamo, giusto alle spalle del corteo, nella terra di nessuno tra i manifestanti e i poliziotti. È una stradina in salita e, mentre saliamo, vediamo 3 camionette della polizia scendere, in direzione di via Tolemaide. Erano 3? 5? Non ricordo… ricordo che con noi c’era un fotografo che ci racconta che era con le Tute Bianche e che i poliziotti gli hanno preso la macchina fotografica ed i rullini. Adesso vuole solo scappare. Anche lui non è messo troppo bene. O forse sono io che ricordo male. “Oddio, sono pazzi! Sono scesi con i Defender e i manifestanti erano tutti a terra. Che cosa cazzo vogliono fare?” Che cos’è un Defender? Non ho tempo per chiederlo… ce ne dobbiamo andare. Dove? Nessuno lo sa, ma l’importante è andarsene, correre, scappare.

Ho perso la cognizione del tempo. Che ore sono? Quanto dura questa giornata che sembra non finire mai? Quando arriva la notte che porta consiglio?
Non lo so quanto tempo è passato. So solo che corriamo, corriamo, ad un certo punto il fotografo non c’è più. Ci ritroviamo in un posto più tranquillo. B. si incammina per una stradina che scende giù ed alla fine della stradina, come un miraggio, la luce del sole sul mare.

Siamo sul lungomare. Lontani da dove eravamo partiti la mattina, ma sempre sul lungomare. Ci sono altri ragazzi che manifestano, alcuni forse sono stranieri. Di lato un gruppo di poliziotti. Passiamo. Ci chiedono da dove veniamo. Non lo so. Sento B. che snocciola uno dopo l’altro i nomi delle strade e delle piazze per le quali abbiamo corso tutto il pomeriggio e quello che abbiamo visto zona per zona. Io non so nulla. Non capisco nulla. Non ricordo nulla. Non ricordo se quelle cose le ho vissute sul serio o se sono solo state un brutto sogno dovuto alle preoccupazioni di mia madre. Forse è un incubo. Forse devo ancora arrivare e mi sono addormentata sul pullman. Ma non può essere. Guardo il mare. Vorrei farmi un bagno, lavare tutto quello che ho visto, tutto lo sporco che mi sento addosso e dentro. Vorrei scappare. Ma non si può. Non capisco cosa sia successo. Qui sembra tutto più tranquillo.

Arriviamo finalmente dove avevamo messo la tenda. “Hanno ucciso un ragazzo”, dice qualcuno. “No, sono due!” dice un altro. “No, e’ una ragazza.” un’altra voce ancora. “Scusa, hai un cellulare? Me lo presti per fare una chiamata?” mi chiede una ragazza bassina. Glielo do. Chiama, ma non c’è campo. “Al telegiornale hanno detto che un ragazzo è morto”, grida qualcuno. “Forse dovresti chiamare tua madre” mi fa B.

Un ragazzo è morto. Carlo Giuliani avrebbe potuto essere ognuno di noi. Carlo Giuliani è ognuno di noi, perché da allora qualcosa è morto dentro ognuno di noi.


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