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“Gente che sa ascoltare il vento sulla pelle”: Francesco De Grandi a Marsala

Creato il 26 agosto 2014 da Leggere A Colori @leggereacolori

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Un grazie di cuore a Sergio Troisi che in questa stagione estiva dalle sorti climatiche alterne ci ha offerto l’opportunità di raccogliere una piccola piacevole certezza. La mostra di Francesco De Grandi al Convento del Carmine di Marsala, visitabile fino ad ottobre inoltrato, infatti, rappresenta un piccolo lusso visivo da concedersi con struggimento e meraviglia. Abbandonato fra le faglie complesse della poetica del Sublime, De Grandi si aggira fra gli spunti articolati e illusori della grande pittura del passato: rovista fra le onde di Turner, ruba spuma al mare di Friedrich, gioca con il fogliame di Manet, insegue zefiri di Constable e non lesina uno sguardo indagatore fra i famosi santi di El Greco. Qua e là, con un po’ di allenamento, dopo i primi passi fra le sale, sarete voi stessi in grado di ritrovare piccole ombre di Dosso Dossi e persino quale suggestione coloristica e formale di Arcimboldo. E il gioco potrebbe continuare all’infinito.. De Grandi, infatti, ama con devozione palpabile la pittura tanto da modellare la propria creatività e la rappresentazione della natura in omaggio appassionato e inconfondibile: egli ha registrato lo squarcio ermetico del lampo di Giorgione all’Accademia di Venezia che increspa un paesaggio perfetto e ne ha colto lo spirito speculativo.

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De Grandi dunque non vuole violare la perfezione: vuole esaltarne il profumo, palesarne il calore, confermarne le forme imperiture per analogie e differenze. Fra tempeste e nature verdeggianti dalla corporeità quasi carnosa, corposa e vellutata, talvolta anche graffiante, De Grandi intraprende un viaggio visionario, passionale, in bilico fra continuità della grande arte e bisogno di indagine sull’umano: un vero atto d’amore, una sorta di nozze con il mare che annulla ogni pericolo di emulazione per scegliere la strada della contaminatio intima accorta e sorvegliata. L’artista si muove, pertanto, grazie ad un radar solerte fra le isole consuete dei topoi della pittura di sempre: il mare, la tempesta, l’amore, il dolore e la morte, la perdita, il vuoto e l’abbandono. Niente lo acceca, tutto lo abbaglia.

Niente lo confonde, tutto lo permea. Nessuna solitudine eroica facile lo seduce; nessun titanismo lo invade. Sulla tela, luci e ombre, che alternano autenticità a finzione, raccolgono questo omaggio devozionale agli archetipi della creatività e scelgono di avventurarsi fra gli scogli dell’espressività che si afferma come strumento di conoscenza dell’uomo e metafora dell’indagine di se stesso nello spontaneismo virtuoso assoluto. Nell’oscillare della visione da una luce e un bagliore ci avviciniamo pian piano al suggerimento lineare che l’artista ci offre: far si che l’arte diventi la cifra curricolare, quotidiana della nostra esistenza fra continuità e rinnovamento. La sua nobile semplicità, coniugata alla sua maestosità, è in grado di fornici domande e guidarci verso risposte che nessuna altra pratica nella vita odierna è in grado di schiuderci. Come scriveva Alda Merini, infatti: “Mi piace la gente che sa ascoltare il vento sulla pelle, sentire gli odori delle cose, catturarne l’anima. Perché lì c’è verità, lì c’è dolcezza, lì c’è sensibilità, lì c’è ancora amore.”

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