Gentil mente
8 maggio 2014 di Titti De Simeis
di Titti De Simeis
“Devo chiederti scusa se sono gentile con te”? E’ una domanda che spesso ho sentito di voler rivolgere ad una categoria di persone, ancora molto vitale, che si sente offeso dalla cortesia confondendola, spesso, con la ‘finzione’, come se essere cortesi significhi, necessariamente, avere una doppia faccia.
Forse è solo un problema di disabitudine, di contesti sociali che son cambiati nel tempo.
Io non credo che sentirsi dire ‘per favore’, ‘scusa’, ‘grazie’, o ricevere gesti educati possa essere scambiato per non so che.
Eppure è così. Alcune persone si infastidiscono, reagiscono male di fronte a chi usa un linguaggio cordiale, ormai, inconsueto. Considerano la cortesia un modo di essere, l’interpretazione di un ruolo mirato a raggirarle e per niente ‘naturale’.
Tengo a dire, alle stesse persone, che la gentilezza rientra pienamente nella ‘normalità’ se solo la si è respirata o conosciuta, se fa, cioè, parte di noi. Ed è un patrimonio considerabile e, meno male, resiste ancora all’ appiattimento dilagante.
Le cosiddette ‘buone maniere’ si usano, sono ancora in voga e fanno parte del quotidiano di molti. Così come le attenzioni, le premure, i cosiddetti gesti signorili.
A qualcuno, però, sta stretto questo stile di vita. Lo chiamo così, visto che, ormai, è fuori dalla consuetudine.
Un tempo il ‘signore’ si riconosceva dal modo in cui si rapportava agli altri. E non parlo della presunta nobiltà, legata ad uno status, ad una condizione sociale, spesso segnata da livelli economici più o meno appariscenti. Parlo di quell’elevatezza interiore che spiccava in modo inequivocabile. Quella signorilità che era di insegnamento anche al più panciuto ed appariscente nobilotto di provincia, quando, al cospetto di un semplice contadino, riusciva a comprendere come il rispetto abitasse più i poderi della sua stessa corte.
Perché la vita ci cade sulle spalle e ci fa comprendere quanto siamo esuberanti quando facciamo delle parole bagaglio inutile, di esperienza ‘per sentito dire’.
Oggi, per molti, la gentilezza è sinonimo di ‘servilismo’ di inferiorità, di assoggettamento. Ed è forse proprio a questa categoria di persone che l’educazione alla gentilezza arriva a dar fastidio. Forse ci si sente superiori o non si è assorbita sufficiente buona educazione, o, probabilmente, si considera la libertà da queste regole elementari un modo per non sentirsi costretti in certi parametri.
Ma essere liberi non significa smettere di aver considerazione degli altri. E non significa disabituarsi ai modi garbati per paura di creare disagio a chi che non li possiede o vuole dimenticarsene per fare, della vita che gli resta, una rivoluzione.
Il resto della vita, in questo caso, sarà soltanto una grossa eredità di egoismo e di superficialità, semplicemente. Per tanti, chiusi nelle sfere inaccessibili delle loro convinzioni, che non chiederanno mai scusa se, in quel loro mondo, rischiano di rovinare i loro figli o chi riceverà il mondo, poi.
Libertà è saper vivere, convivere e lasciar vivere. Ognuno con il diritto di comportarsi come crede, con le radici che si ritrova, annaffiate o meno di correttezza.
A chi si aspetta le mie scuse per il mio garbo, quando riesco a dargli vita, io chiedo scusa, piuttosto, se di fronte alla sua sgradevolezza non riesco a trattenere una smorfia di disgusto.
E a chi mi leggerà con un sorriso complice, dico: infinitamente, grazie.