Martin aveva iniziato a pubblicare narrativa a livello professionistico con L’eroe, racconto compreso in Italia nell’antologia Le torri di cenere. Per anni si è dedicato solo alla narrativa breve finché, nel 1977, non ha pubblicato il suo primo romanzo, Dying of the Light, pubblicato in Italia prima con il titolo La luce morente e poi come In fondo il buio. Il romanzo, salutato come l’esordio nella narrativa lunga di un bravissimo autore di racconti, è stato molto apprezzato. Nel 1981 è arrivato Il pianeta dei venti, scritto insieme a Lisa Tuttle, anche se in realtà si tratta di una raccolta di tre racconti aventi la stessa protagonista e collegati fra loro da una cornice. Il 1982 è stata la volta del Battello del delirio, e qui dalla fantascienza passiamo all’horror. In successo è notevole. La strada per lo scrittore è ormai in discesa? Sbagliato, l’anno dopo George pubblica The Armageddon Rag e, malgrado le recensioni più che positive, il romanzo non vende nulla. L’insuccesso è tale che nessun editore vuole più pubblicare un romanzo suo e lui, per una serie di circostanze particolari, si ritrova a fare lo sceneggiatore per Hollywood. Dieci anni di scrittura, ma soprattutto riscrittura, cercando di entrare in canoni per lui troppo stretti, fino alla pubblicazione nel 1996 di A Game of Thrones, primo romanzo delle Cronache del ghiaccio e del fuoco. Se anche non è immediato, il successo cresce in maniera dapprima regolare, grazie al passaparola degli appassionati, e poi in maniera esponenziale grazie alla serie televisiva Il trono di spade.
La mia recensione:
Cosa è successo, si chiede Sandy Blair. E la sua non è una semplice domanda volta a scoprire chi, come e perché abbia commesso un determinato omicidio. È un brutale fatto di cronaca il pretesto dal quale parte la sua inchiesta, un viaggio a ritroso nel tempo intrapreso tanto per ritrovare la gioventù perduta quanto per fuggire da un romanzo che non vuole saperne di essere scritto. Ma, come scoprirà il protagonista di Armageddon Rag, il tempo gioca strani scherzi, e a volte conduce i viaggiatori su sentieri che mai si sarebbero sognati di percorrere.
È un romanzo ricco l’opera che ha quasi stroncato la carriera di George R.R. Martin. Denso, nel quale immergersi e assaporare ogni parola alla ricerca di quella resurrezione cancellata, quasi un oscuro presagio, dal titolo del libro che abbiamo fra le mani. Non dal titolo della canzone che stava cantando con tutte le sue energie Patrick Henry Hobbins detto Hobbit, Armageddon/Resurrection Rag, al momento della sua morte.
È difficile definire un’opera come questa. Un giallo forse, in fondo tutto inizia con un omicidio e si riaggancia a un altro omicidio avvenuto tredici anni prima. Un viaggio sentimentale nell’America degli anni ’60 e ’70, distrutto dalle consapevolezze del decennio successivo. Un omaggio alla musica pop/rock e alla sua forza dirompente. Una storia d’amore e di forti passioni. Un incubo che affonda le sue radici in qualcosa che va al di là della comprensione umana. Un salto nel paranormale tanto più potente perché compiuto a partire dal mondo reale. Armageddon Rag è tutto questo e molto di più. Soprattutto è una storia che tocca corde profonde.
Patterson convince Blair a condurre un’inchiesta sulla morte di Jamie Lynch, già manager di un gruppo rock, i Nazgûl, scioltosi tredici anni prima quando, durante il concerto, il loro leader Patrick Henry Hobbins era stato ammazzato con una fucilata. Quello di Sandy dunque è un viaggio nel passato, visto che l’omicidio di Hobbins è ancora irrisolto, e nel presente, alla ricerca dell’assassino di Lynch. E in questo doppio viaggio Sandy rivive tutti i suoi sogni del passato dando corpo a speranze e incubi rimasti sepolti nel subconscio ma mai davvero spariti.
Il romanzo si divide idealmente in due parti. La prima segue l’indagine di Blair: arrivo, incontro, conversazione e partenza. La prosa è coinvolgente, i personaggi reali. Nonostante si vedano per poche pagine tutti hanno la loro personalità e non possono essere confusi tra loro, o etichettati come figure inutili. Tutti sono lo specchio della realtà, una realtà ben diversa da quella sognata da Sandy, o da Martin e dai suoi lettori. Una verità che fa male, come un colpo sparato senza motivo apparente e arrivato non si sa da dove.
Ma dopo un po’ uno schema di questo tipo finirebbe per diventare stancante. Quanto incontri si possono fare senza suonare ripetitivi? Quanti chilometri si possono macinare perché il viaggio abbia ancora il suo senso? Martin è ben conscio dei limiti di una storia basata solo su questo, e proprio quando il divertimento rischia di calare narra un ultimo incontro. Quello che da solo basterebbe a donare un senso al libro. Quello che rompe il giocattolo, e che lascia dentro un vuoto incolmabile che nemmeno la musica può davvero riempire.
Aveva ragione Philip DeGuere a metà anni ’80: da questo romanzo si potrebbe ricavare un magnifico film. La forza visionaria e l’energia dell’ultima parte sono incontenibili, anche se un po’ inquietanti. Perché Sandy non è ancora venuto a capo con tutti gli spettri del passato, e l’assassino di Jamie Lynch, per quanto apparentemente dimenticato dalla trama, non è ancora stato assicurato alla giustizia.
Stephen King ha definito Armageddon Rag il miglior romanzo che abbia mai letto sulla cultura della musica pop americana degli anni ’60. Il romanzo è questo, e anche di più. È un sogno che, dopo aver preso vita, rischia pericolosamente di trasformarsi in un incubo, perennemente in bilico fra l’annunciato Armageddon e una possibile resurrezione. Scritto benissimo, il libro di George R.R. Martin è un inno alla vita che non nasconde i lati più cupi ma che ci ricorda che, se vogliamo, abbiamo ancora molta strada da fare.