Sono passati due anni da quando ho (ri)letto In fondo il buio e ancora non ne ho parlato. Due anni in cui ho scritto una valanga di testi, rimandando continuamente questo. Il problema è che leggo troppo, e scrivo troppo, e ho più idee che tempo per scrivere, così qualcosa resta indietro. Non avevo commentato il libro sul blog, subito dopo averlo finito, perché pensavo di scriverne una recensione per FantasyMagazine, anche se questo è un testo di fantascienza, solo che non sono riuscita a farlo subito e più tempo trascorre più diventa difficile scrivere una recensione vera. In questo caso ho deciso che un po’ di commenti a ruota libera sono meglio di niente.
La luce morente è il primo romanzo pubblicato da George R.R. Martin nell’ormai lontano 1977. Lo scrittore pubblicava con successo racconti fin dal 1971, perciò si era creata una certa aspettativa per il suo primo romanzo. Le recensioni erano state positive e le vendite soddisfacenti. I romanzi successivi sarebbero stati Il pianeta dei venti (1981, con Lisa Tuttle), Il battello del delirio (1982) e Armageddon Rag (1983), prima di una lunga (e forzata) pausa che lo avrebbe visto tornare alla narrativa lunga con A Game of Thrones (Il trono di spade e Il Grande Inverno) solo nel 1996.
La traduzione italiana con il titolo La luce morente è del 1979 a opera di Armenia, casa editrice purtroppo recentemente scomparsa. Tutte queste cose io le ho sapute dopo. Nel 1999, durante un viaggio in treno preliminare alla veglia di Capodanno, ho letto buona parte del Trono di spade, e ricordo ancora il mio dispiacere nel dover scendere prima di aver ultimato la lettura perché il viaggio era finito. Ho finito il libro il giorno dopo, il 31 dicembre, ignorando senza problemi la mia amica fino a quando non ho raggiunto l’ultima pagina. A quel punto io dovevo sapere come proseguiva la storia ma anche chi diavolo fosse questo scrittore che fino a quel momento non conoscevo.
Nell’editoriale del numero 72 di Robot Silvio Sosio ha ricordato il suo amico Gianfranco Viviani, morto lo scorso 29 agosto. Io ho parlato con lui una sola volta, sono sempre stata troppo timida quando si tratta di parlare con qualcuno, e anche se negli anni ’90 sono andata diverse volte nella sede della casa editrice Nord in via Rubens per comprare qualche libro, non pensavo di poter incontrare il direttore. Per me era questa figura mitica, lontanissima, che mi consentiva di leggere storie che io amavo. Per anni Nord è stata la casa editrice di cui ho acquistato il maggior numero di libri, e per anni ho letto con molto interesse il Cosmo Informatore, anche se non ho mai avuto il coraggio di scrivere. Lo so, dire adesso che non avevo il coraggio di scrivere fa ridere, ma non avete idea di com’ero vent’anni fa. E sul Cosmo ho letto che Martin aveva firmato il contratto più remunerativo della sua già lunga carriera per completare la trilogia delle Cronache del ghiaccio e del fuoco. Una trilogia? Informazione molto interessante, l’opera di Viviani e delle persone che hanno lavorato con lui mi è stata utile in più modi. E altre informazioni si ricavano dai libri.
Voi li leggete gli elenchi di titoli appartenenti alla stessa collana del volume che avete in mano? Io sempre, e segno pure con un asterisco quelli che ho già letto. Lo so, sono paranoica. Comunque così ho scoperto che Nord aveva già pubblicato Il pianeta dei venti (dei racconti avrei saputo solo tre anni più tardi, quando mi sarei procurata il Catalogo storico ragionato della casa editrice, catalogo pieno di appunti e che ancora custodisco gelosamente) e che Fanucci aveva pubblicato La luce morente. L’edizione Fanucci era una riedizione, datata 1994, del romanzo già pubblicato da Armenia. A questo punto è partita la caccia ai libri. Del Pianeta dei venti ho trovato una copia dell’edizione tascabile in una bancarella di libri usati, mentre ho preso in prestito La luce morente nella biblioteca del paese vicino a quello in cui vivevo. Perché frequentare una sola biblioteca quando con la bici ne potevo facilmente raggiungere altre tre? In questo modo le possibilità di lettura aumentavano enormemente.
La luce morente mi era piaciuto, ma al di là di questo ricordavo poco altro, perciò appena Gargoyle lo ha ripubblicato con il nuovo titolo mi sono affrettata a comprarlo. L’addetta stampa mi ha spiegato che hanno cambiato il titolo perché La luce morente non gli piaceva, così il libro è diventato In fondo il buio.
Io non condivido questa decisione. Il titolo originale è Dying of the Light, potremmo forse dire il morire della luce, o magari lo sparire della luce, l’enfasi mi pare sia più sul verbo morire che sulla luce, in pieno stile martiniano, mentre to die fra i suoi significati ha spegnersi, terminare, cessare e scemare, ma così andiamo a cavillare. Il vecchio titolo era ragionevolmente fedele a quello originale, ragione per cui lo si poteva lasciare, e ogni volta che si cambia il titolo a un libro si crea confusione, come ho spiegato qui: http://librolandia.wordpress.com/2013/07/09/caro-editore-ti-odio/.
Ora quando parlo del libro come lo devo chiamare? Di solito opto per il titolo della versione in commercio, in modo che chi è interessato può trovare il libro, ma la cosa comunque mi infastidisce.
La luce che muore, o che si spegne. Quale luce? Quella di un sole, o per meglio dire l’illuminazione solare ricevuta da un pianeta dall’orbita decisamente insolita quando si trova a passare in un sistema composto da sei stelle. Non sono un’astronoma, non so quanta verosimiglianza scientifica ci sia dietro l’ipotesi di Martin, anche se suppongo non molta, ma per il bene della storia accantoniamo questi dubbi e pensiamo alla trama.
Worlorn, un pianeta generalmente gelido e inadatto alla vita umana, a un certo punto si trova a passare ragionevolmente vicino a questo insolito sistema stellare, cosa che gli consente di avere il clima adatto, insieme a tutte le altre caratteristiche, alla presenza della vita umana. Siamo in un’epoca tecnologica particolarmente avanzata, il genere umano si è diffuso in un’infinità di pianeti al punto che è praticamente impossibile visitare tutti i mondi abitati, e si è differenziato in culture a volte molto particolari. E visto che la tecnologia lo consente, e anche probabilmente che l’umanità è annoiata da una certa stagnazione, dalla mancanza di novità, il sapere che per un certo numero di anni il pianeta sarebbe diventato abitabile ha portato alla costruzione di città e all’apertura di un festival, costruendo di fatto il più grande monumento all’effimero che mi sia capitato di trovare in letteratura.
Se volete leggere le prime pagine del romanzo le potete trovare qui: http://www.gargoylebooks.it/attachments/article/27/Libero.15.04.12.pdf.
Worlon è stato, per alcuni anni, un pianeta di festa, ma la festa è giunta alla fine. Entro breve tornerà a essere un pianeta morto, anche se ancora piccoli gruppi di persone, nostalgici e studiosi, vi si attardano sopra.
La cornice è fantascientifica, ma l’attenzione è sui personaggi. L’aspetto tecnologico, pur presente, rimane sullo sfondo e funzionale alla storia. Con un mondo così l’atmosfera della storia non può che essere crepuscolare, malinconica. Martin ha sempre amato il lato oscuro del romanticismo, quello dell’oblio, del lasciarsi scivolare trascinati in basso da un peso insostenibile. In questo si ritrova in pieno lo scrittore che è attivo ancora oggi e che è diventato famoso con Le cronache del ghiaccio e del fuoco. Su Worlon c’è anche Gwen, la donna che Dirk non può dimenticare e che pensava di aver perduto per sempre, almeno fino a quando lui non riceve da lei una richiesta di aiuto.
Partendo da questo semplice elemento, una fanciulla in pericolo e l’uomo che è innamorato di lei che accorre per salvarla, si possono scrivere infinite storie. Se ne sono scritte così tante che il rischio è quello di cadere nella banalità. Non è quello che capita a Martin, che già tanti anni fa dimostrava di saper scrivere davvero. L’interesse è su Dirk, il protagonista della vicenda, ma pian piano emergono anche la figura e la personalità di Gwen, di suo marito, Jaan Vikary, del compagno di suo marito, Garse Ironjade Janacek, e del compagno di studi di lei, Arkin Ruark, oltre che di un rivale, Bretan Braith, che sembra aver perso ogni capacità di empatia per rifugiarsi in un rigido codice d’onore e nelle sue regole, che si ostina ad applicare anche a chi non le condivide.
La cultura di Alto Kavalaan, cui appartengono tre di quegli uomini (l’eccezione è Ruark), è particolarmente rigida e aliena, anche a causa di drammatici avvenimenti passati che vengono spiegati nel corso del libro. Il problema è che si è fossilizzata talmente tanto da lasciare poco spazio di movimento e da rischiare di soffocare chi ne è entrato senza sapere bene quel che stava facendo, come Gwen, o chi la vorrebbe cambiare, come Jaan. Ma, una volta compiute determinate azioni, bisogna andare fino in fondo.
Riprendendo il libro ho trovato una manciata di appunti e di numeri di pagina annotati. Comincio subito con la malinconia, con i versi di Keats che ricordano che
non c’è nulla di così malinconico come la morte della bellezza.
Sono a pagina 82, poco più sotto Dirk osserva lo scorrere di un fiume al tramonto.
E sembrava quasi possibile scorgere i fantasmi di cui Gwen aveva parlato, spiriti che si affollavano presso le rive da entrambi i lati e cantavano lamenti per tutto quanto avevano ormai perduto.
Questo è l’autore di racconti come Al mattino cala la nebbia e Le solitarie canzoni di Laren Dorr, non dimentichiamolo, anche se è pure lo stesso scrittore di Solitudine del secondo tipo, Canzone per Lya e Re della sabbia. Non che questi ultimi racconti non mi siano piaciuti, solo che sono più inquietanti. Lo scrittore è lo stesso, e si sente. E naturalmente non si è limitato a quel passaggio. Ne riprendo altri due, togliendoli dal contesto in modo da non spoilerare nessuna azione, solo qualche sensazione.
Il canto non somigliava ad alcuna musica che Dirk avesse mai ascoltato. Dava i brividi, era selvaggia e quasi disumana. S’impennava, ricadeva e cambiava costantemente. Era la cupa sinfonia del vuoto, di notti senza stelle e sogni agitati. Era composta di lamenti, sussurri e ululati, e di una strana nota bassa che non poteva essere altro che il suono della tristezza.
Il suono della tristezza. In due dei cinque titoli di racconti che ho citato, e non l’ho fatto apposta, c’è un diretto riferimento a una canzone. Quelle che noi conosciamo come Le cronache del ghiaccio e del fuoco in realtà sono A Song of Ice and Fire, un canto di ghiaccio e di fuoco. Le canzoni e la musica sono sempre state importanti nella scrittura e nella sensibilità di Martin. E qui, a pagina 101, il tema della musica, associato alla malinconia, ritorna. Alla pagina successiva si trovano parole il cui effetto è ancora più forte
È una canzone del crepuscolo e della notte che scende, avverte che non ci sarà mai più un’altra alba, mai più. È una canzone definitiva.
Worlon, ricordo, dopo un breve periodo di vita e di gioia è destinato al buio e al ghiaccio eterno. E noi stiamo aspettando The Winds of Winter, I venti dell’inverno. E per chi ancora non lo avesse capito… avete letto le interviste a Martin, quelle sui supereroi e sul fatto che ha sempre amato i personaggi tragici e destinati alla sconfitta? Nelle Cronache del ghiaccio e del fuoco qualcuno muore, giusto? Ogni tanto mi capita di leggere frasi di qualche lettore che afferma che alla fin fine non è morto nessuno d’importante, e io mi domando in quante opere di finzione ha visto morire così tanti personaggi ai quali l’autore aveva dedicato spazio in abbondanza. Non dico che Martin sia lo scrittore che ha all’attivo più personaggi ammazzati di tutti, ma certo se nelle sue storie c’è da far fuori qualcuno lui non si tira indietro. Bene, parlando di Jaan Janacek spiega che
Perfino i suoi eroi…, un giorno mi sono ricordato di alcune storie che mi aveva raccontato durante la mia infanzia. Sono rimasto colpito dal fatto che tutti i suoi eroi preferiti erano uomini solitari che alla fine venivano sconfitti.
Lo ricorda anche Ned ad Arya che il lupo solitario muore là dove il branco sopravvive, quindi essere solitari spesso non conviene. Comunque lo scrittore è lo stesso, anche se gli amanti duri e puri della fantascienza affermano che ora George si è svilito ed è passato a fare opere fantasy decisamente più commerciali rispetto alla fantascienza dei suoi esordi. Avviso: A Game of Thrones, il primo romanzo, all’epoca della sua pubblicazione è passato quasi inosservato. Ai due romanzi successivi è andata un po’ meglio, ma è solo dal quarto romanzo in poi che le vendite di Martin hanno raggiunto livelli altissimi, quindi la cosiddetta scelta commerciale ha pagato solo col tempo. Se l’interesse fosse stato solo sulle vendite Martin avrebbe mollato la saga molto prima di iniziare a guadagnare davvero. Ma torniamo a In fondo il buio, facendo un salto indietro e cambiando tema.
Alle pagine 44-47 c’è un lungo discorso sui nomi e sull’identità, e non ho potuto fare a meno di appuntare i nomi di Sansa e Theon come quelli di due personaggi che hanno problemi di identità, ma non sono solo loro ad averli nelle Cronache. Pensiamo a Lord Beric, ad Arya, a quello spadaccino che non sa più chi è dopo aver perduto la mano della spada… Gwen spiega che
Una cosa senza nome non ha nessuna sostanza. Se esiste deve avere un nome. E allo stesso modo, se dai un nome a una cosa, in qualche momento, a un qualche livello, la cosa nominata esisterà, prenderà vita.
E ancora
Il problema era che tu amavi Jenny… ma Jenny non ero io. Era una figura modellata su di me, magari, ma era essenzialmente un fantasma, un desiderio, un sogno che ti eri costruito da solo. Tu l’hai sovrapposta a me e ci amavi entrambe, così col tempo ho finito per diventare Jenny. Dai un nome a una cosa e in qualche modo diventerà reale. Tutta la verità è nei nomi, così come tutta la menzogna, perché non c’è niente che distorca le cose come un falso nome, capace di cambiare sia la realtà sia le apparenze.
Il discorso sui nomi da solo meriterebbe una trattazione. Io sono colui che sono. L’uno, l’unico saggio, vuole e non vuole essere chiamato Zeus. I nomi sono potere, in quanti fantasy si possono eseguire magie se si conosce il vero nome di una persona? C’è anche il discorso della verità, e spesso in Martin è difficile distinguere la verità dalla menzogna. Altro tema su cui si potrebbero scrivere saggi, lo so. Del resto a pagina 18 di questo libro Ruark aveva affermato che
una mezza verità è peggio di una bugia completa.
Inutile dire che in questo libro c’è qualcuno che mente e che le menzogne possono rivelarsi mortali. Comunque se qui ho citato il Mastino a pagina 133 c’è la descrizione di un tizio “affascinante”:
Aveva solo mezza faccia; tutto il resto era un ammasso di tessuto cicatriziale percorso da spasmi. Il suo “occhio” sinistro si muoveva senza posa quando voltava la testa e Dirk vi scorse una fiamma eloquente: una pietraluce incastonata in un’orbita vuota.
Malgrado il fatto che abbia mezzo volto ustionato Sandor Clegane il suo occhio ce l’ha ancora, ma fa effetto ritrovare elementi simili. Evidentemente qualcosa si era sedimentato sul fondo della mente dello scrittore e poi è tornato fuori. Fino a quando i vecchi motivi vengono riproposti in forma nuova però non sarò io a lamentarmene, al massimo ne sottolineo la presenza.
Sono solo alcune frasi, alcuni elementi. Non ricordo così bene il romanzo da farne una vera recensione, ho lasciato trascorrere troppo tempo. So che mi era piaciuto, che ero rimasta ammirata dall’originalità di alcune costruzioni, che spesso ero rimasta senza fiato e che il finale… ecco, del finale non posso parlare. Va letto, gli spoiler secondo me non sono mai divertenti e certe cose si capiscono davvero solo se ci si arriva nel modo giusto, leggendo tutto quello che c’è prima. Io so che quando ho chiuso il libro ero consapevole della forza con cui mi avevano toccata quelle parole.