Il nuovo disco dei Gerda era atteso da queste parti con enorme curiosità e altrettanta impazienza, vuoi per il valore del materiale che la formazione ha offerto nel corso degli anni, vuoi per la consapevolezza di avere a che fare con musicisti spinti dalla costante voglia di evolvere il proprio linguaggio e, per questo, mai scontati o prevedibili. Your Sister non ha deluso le aspettative, al contrario ha portato con sé una vera e propria rivoluzione sonora di cui, insieme a molte altre cose, abbiamo parlato coi diretti interessati.
Ciao, nuovo lavoro in arrivo e parecchie novità in pentola, direi che una delle poche cose che resta immutata rispetto al disco precedente è un forte richiamo nell’artwork. Come mai avete deciso di mantenere questa continuità a livello visivo?
Alessio (basso): Ciao! Di sicuro ti riferisci al cane, quel cane è stato fotografato almeno cinquant’anni fa, chiaramente nessuno di noi lo ha mai conosciuto, però da quando lo abbiamo trovato per caso nella copertina di un libro abbiamo avuto quel muso di cane negli occhi praticamente in maniera costante fino ad ora. Abbiamo iniziato a elaborare quell’immagine per la copertina del nostro album di quattro anni fa, a ridisegnarla ad oltranza, l’abbiamo trasformata in un telaio per serigrafia e ristampata su maglie, federe per cuscini, tavole, carta, custodie per laptop, insomma quel cane è diventato un membro della famiglia e quando uno di noi ha proposto agli altri la nuova copertina con lo stesso cane, è stata una cosa naturale, non c’era niente da spiegare. Anche Mirko (Wallace Records), che ci ha aiutato con le grafiche di Your Sister, ha capito al volo.
Il titolo del disco si rifà a un tipico modo di dire italiano tradotto in inglese. Solo una scelta per l’effetto prodotto o un messaggio cifrato?
Eheh, il titolo è un insulto. Tradurlo in inglese serve solo a renderlo più universale. È il tipo di insulto che utilizzi quando vieni attaccato o criticato e non sai come rispondere o non hai voglia di farlo a tono perché rifiuti la critica. È aggressivo e insensato, volgare. È il nostro rifiuto di aggiungere spiegazioni alla musica, a quella di quest’album, almeno. Ma è anche un suggerimento. Tutti i pezzi che compongono il disco sono insulti, così li intendiamo e così li suoniamo. Non si può non essere per lo più aggressivi e volgari oggi, non si può suonare una musica pacifica, non si può essere accondiscendenti, non si può non rispondere agli attacchi costanti, non si può sorridere a caso. Una band è una gang, come dice Ian F. Svenonius, un micro-organismo che protegge da una società ostile, devastante. I Gerda lo sono, chi è dentro è un amico, un fratello, tutti gli altri probabilmente no.
Rispetto al passato, quello che subito salta all’occhio è una maggiore linearità nella sezione ritmica, con la chitarra lasciata libera di muoversi entro le traiettorie dei brani. Una bella rivoluzione all’interno del vostro suono…
Negli ultimi anni nella nostra musica ha iniziato ad essere sempre più importante il groove, un elemento che è praticamente assente nell’hardcore. Ecco come succede, suoni la musica di cui hai bisogno, e ti accorgi che non hai più bisogno di hardcore, di essere una band che suona come una squadra d’assalto di un esercito, in cui ognuno ha un compito stabilito, in cui si suona tutti quanti lo stesso riff. In parte lo siamo stati, chiaro, lo abbiamo fatto, a quel tempo avevamo bisogno di potenza, c’era l’esigenza di abbattere o devastare qualcosa, a quanto pare, non so. Noi ora suoniamo più come una tribù, in cui ognuno ha la sua natura e le sue inclinazioni e si esprime in base ad esse. Basso e batteria cercano di costruire cellule ritmiche nuove, architetture non rettangolari, simmetriche, fasciste, bensì caotiche, vegetali, rizomatiche, e le ripetono come un mantra, fino alla nausea o alla trance, costruiscono un intero villaggio. La chitarra e la voce esplorano e percorrono questi spazi, li abitano, dentro di essi cantano, piangono, urlano.
Anche la struttura dell’album è particolare, con la parte centrale affidata a una scrittura più dilatata, a suo modo “altra” rispetto all’idea che di Gerda ci siamo costruiti con l’ultimo album. Vi va di raccontarci come è cambiato – se lo – è il vostro modo di comporre e che tipo di sensazioni/dinamiche volevate esplorare all’interno di Your Sister?
Gerda, come molte band, è in evoluzione costante. Di sicuro un downtempo come quello di “Reich Reich” non lo avevamo mai concepito finora. Ma ci sono molte novità nel sound di quest’album, anche se, non so, continua a suonare simile agli altri nostri dischi. È musica per lo più aggressiva, ma i nostri stati d’animo sono diventati più complessi di quelli da ragazzino che avevamo quando eravamo arrabbiati a basta, ora siamo ancora arrabbiati perché c’è sempre tanto che ci fa arrabbiare, però dentro la rabbia ci sono diverse sfumature, c’è abbattimento a volte, c’è amore, c’è noia, c’è confusione, c’è un senso di fallimento ma c’è anche un’inspiegabile felicità.
“Night And Fog In Vallesina” mi fa venire la curiosità di chiedervi del vostro rapporto con Jesi e con il vostro territorio. Come credete abbia contribuito a fare dei Gerda quello che sono e che vantaggi/svantaggi ha comportato venire dalla provincia?
Questa è una bella domanda. Io credo, spero, che quel titolo faccia intravedere, attraverso la delusione e la frustrazione, anche un grande affetto nei confronti della nostra terra. Ciascun Gerda ha vissuto via da Jesi e dalle Marche per diversi anni, ma alla fine tutti quanti siamo tornati, o stiamo tornando.
Dovendo parlare di cosa può significare per una band nascere e crescere nella provincia, finirei per direcose piuttosto scontate, tipo per esempio che si è costretti ad affrontare e risolvere per conto proprio questioni sia stilistiche sia logistiche, non c’è una scena, o almeno non c’era nella seconda metà degli anni Novanta quando abbiamo iniziato a suonare insieme. Non c’erano band che ci piacessero e con cui poter condividere un linguaggio musicale, come pure esperienze, concerti, pratiche, sale prove. Quando la nostra musica è diventata davvero troppo rumorosa perché una qualunque mamma potesse continuare a sopportarla per due pomeriggi a settimana, non abbiamo avuto altra scelta che frullare la porta di metallo del locale caldaie tra le fondamenta di quello che allora era il CSOA TNT e occuparla per suonarci e farci dentro registrazioni per anni.
A Jesi non c’erano modelli, non c’era nessun rapporto con la discografia indipendente, tutto era lontano anni luce, era il medioevo. È stato difficile venire a contatto con chi in Italia aveva iniziato a darsi da fare con fanzine ed etichette diy, però ce l’abbiamo fatta, in un modo o nell’altro. Ci è voluto un sacco di tempo e sbattimento, ora forse è tutto più veloce, ma non è detto che sia meglio così. Noi abbiamo continuato a suonare per anni, anche se non c’era quasi nessun rapporto tra la band e il mondo esterno. Questo credo sia stato determinante non tanto per il sound quanto per l’approccio di Gerda alla musica. Una sorta di isolamento ascetico ci ha sempre accompagnato, e continua a farlo anche adesso che abbiamo qualcuno con cui parlare.
In generale di cosa parlano i brani di Your Sister e cosa ne ha ispirato i testi?
Relazioni. Famiglia, amici, nemici, sconosciuti, noi, tutti gli altri…
C’è un sottile compiacimento, l’adrenalina di una paura, il sentirsi estranei, come inadeguati, disposti a perdere tutto, a non dare valore a niente se non a quello che si cerca e che nutre.
Nei rapporti si può avvertire una sensazione di ripetizione, circuito controllato, nulla comincia più, né finisce, si rinnova forse, ma non cresce, non muore, non ha vita propria. L’individuo non sa più cercare, né risolversi, si nasconde dietro ad autocertificazioni esasperate, senza mai mostrarsi o essere, si riduce a una congettura della propria vita, dove ognuno fa all’altro il favore di non chiedere cosa succede.
In generale parlano di un sacco de cazzi…
Quali sono le label coinvolte nell’uscita del nuovo disco e come vedete oggi la situazione della discografia indipendente in Italia? Cosa rimane della do it yourself conspiracy?
Shove, Wallace, Sonatine, Fallo, LaFine. A Shove e Wallace siamo legati da sempre, dai tempi del nostro primo album, che hanno pubblicato insieme a Donnabavosa ormai dieci anni fa. Le altre sono realtà che in vari modi abbiamo incontrato nel corso degli anni; Sonatine è nostra vicina di casa e ci lega un lungo rapporto di amicizia, Fallo e LaFine le abbiamo incontrate ai concerti, e ci siamo piaciuti. Dunque, a parte quello che ci riguarda in prima persona, sembra esserci molto movimento oggi, molta gente fa dischi, Phonopress ha code di stampa piuttosto lunghe. Ma non tutto quello che accade ci interessa, non tutte le etichette ci piacciono. La discografia indipendente e diy italiana riflette nel bene e nel male l’altra discografia che a sua volta riflette la società, ci sono delle band che hanno più di quello di cui hanno bisogno e altre che non hanno niente… ci avevi pensato? C’è molta pigrizia e conformismo nell’ascolto di musica, si tende a preferire il disco di una band che già abbiamo sentito nominare piuttosto che quello di una il cui nome ci risulta completamente sconosciuto, come pure si tende a preferire un sound che riconosciamo, che riusciamo a ridurre o inserire all’interno di un filone o peggio ancora di un trend, piuttosto che non di uno che ci spiazza. E questo vale per chi deve comprare i dischi come per chi deve decidere di pubblicarli.
I Gerda sono famosi per live set infuocati, dominati da un approccio fisico e viscerale ai brani, quanto conta per voi l’esperienza live e che tipo di rapporto avete con l’esibirvi in pubblico?
Provamo a rimorchià…
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