Questa recensione è apparsa ieri su ResetDOC.
“Una Terra, due Stati”: questo in sintesi il piano di pace post Oslo su cui palestinesi e israeliani stanno lavorando da più di un anno e le cui principali linee guida sono trapelate in questi giorni in Italia tramite il blog “Invisiblearabs” di Paola Caridi, giornalista e storica, che a questo piano aveva lavorato fino a poco prima di partire da Gerusalemme, e lasciare per sempre la città che l’aveva ospitata per dieci anni.
Nel piano “Una Terra, due Stati” si parla naturalmente anche di Gerusalemme: la Città Tre volte Santa, capitale delle tre religioni abramitiche, ma anche la capitale contesa dello Stato di Israele, mai riconosciuta con questo status dalla diplomazia internazionale, la mitica Al Quds degli arabi, meta preferita di un pellegrinaggio religioso che non conosce crisi. Una città crudele e senza Dio, secondo la definizione data dalla stessa Caridi nel suo ultimo libro, ad essa dedicato: Gerusalemme senza Dio. Ritratto di una città crudele (Feltrinelli, 2013).
Crudele perché le sue “carni” sono impastate delle lacrime dei palestinesi gerosolimitani che nel 1948 avevano abbandonate le loro abitazioni a causa dello scoppio del conflitto pensando di poterci tornare, mentre invece il diritto al ritorno dei palestinesi è ancora oggi un diritto negato. Crudele perché oggi la città ha rinnegato il suo passato di laboratorio della modernità quando, a cavallo tra Ottocento e Novecento, tra la fine dell’Impero Ottomano e l’inizio del mandato britannico, uomini e donne, arabi, ebrei ed internazionali abitavano le sue strade e le sue case di bella pietra bianca senza troppi problemi di convivenza. Crudele perché l’avanzare del cemento, volgare e grossolano, ne ha stravolto i lineamenti di un tempo e alle belle e antiche case di fine Ottocento ha affiancato e imposto casermoni anonimi e grigi, come quelli che dagli anni Sessanta in poi hanno impestato le periferie di tante altre città mediterranee ed europee. E crudele anche perché gli unici luoghi in cui israeliani e palestinesi convivono senza entrare in conflitto sono i non-luoghi della post-modernità: un centro commerciale, un supermercato e una strada di passaggio, in cui le due comunità si sfiorano senza mai davvero toccarsi. E crudele, infine, perché assecondando una logica perversa, ha permesso che sulle tracce del villaggio palestinese di Deir Yassin, teatro di un eccidio immondo in quel 1948 della Nakba per i palestinesi, venisse edificato il centro di igiene mentale della città, Kfar Shaul, il manicomio di Gerusalemme.
C’è tutto questo e molto altro nel libro di Paola Caridi, che racconta la storia moderna e contemporanea di Gerusalemme alternando momenti di estrema dolcezza, come quando ricorda il richiamo dell’adhan, “una melodia dolce che sveglia con grazia” la città; o ci introduce a Michel, palestinese cristiano che nel 1948 abitava nel piccolo e storico quartiere di Musrara da cui era dovuto fuggire, come tanti altri, senza poter tornare mai più, a episodi storici o attuali dove la storica e la giornalista si danno il cambio vicendevolmente senza che la narrazione e degli eventi raccontati perda mai il ritmo.
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