Laconica come un titolo di giornale ma altrettanto pregna, ecco riassunta la tesi di questo articolo: prima dei tre episodi di Matrix c’era Ghost in the Shell e dopo è rimasto ancora Ghost in the Shell. Cronologicamente, il suo primato è indiscutibile: il primo dei due film di Mamoru Oshii è del 1995, mentre l’esordio della saga fantascientifica dei fratelli Wachowski avviene nel 1999. Se la saga di Matrix, come ha acutamente notato certa critica, al di là degli innovativi effetti speciali, segue fedelmente la struttura popperiana della fiaba che il cinema popolare di oggi ha mutuato dal cinema classico (si vedano anche le analisi semiologiche di Umberto Eco sul romanzo d’appendice), Ghost in the Shell sceglie un percorso più sperimentale rispetto al suo epigono d’oltreoceano. Abbandonato il messianismo del protagonista (retaggio cristiano sotterraneo), i capolavori di Mamoru Oshii sono la trasposizione filmica di una tesi filosofica di stringente attualità. Raramente un film ha saputo sfruttare le sue componenti organiche in maniera tale da elidere le distanze di linguaggio che intercorrono tra cinema e filosofia. Pura “filosofia visiva”, se oziosamente vogliamo dare una definizione al genere, nel senso che quel pensiero verrebbe costituzionalmente deficitato se non venisse proposto per immagini. Innanzitutto, bisogna dire che il punto di partenza del sistema teosofico di Ghost in the Shell è un postulato. No, non stiamo contravvenendo ai principi elementari della Logica, ma stiamo affermando che Masamune Shirow, autore del manga da cui sono tratti entrambi i film e co-autore della sceneggiatura, per la realizzazione della sua opera, si trova a intervenire in una secolare disputa filosofica, ulteriormente acutizzatasi con l’avvento dell’informatica: a quali esiti porterà il sempre più stretto rapporto tra l’uomo e la macchina? A differenza di Matrix che, dopo un inizio saggiamente ambiguo e perciò fortunato dal punto di vista autoriale, sceglieva purtroppo l’estetismo agonistico di uno scontro a suo parere ineludibile, l’universo di Ghost in the Shell si fonda sull’idea di fusione tra le due parti.
Non una guerra, né una colonizzazione: i due film di Oshii partono dall’assunto di una realtà dove il nostro intreccio con la tecnologia arriverà a un punto tale che non si riuscirà più a capire se sia l’uomo che si automatizza o la macchina che si umanizza. È il 1995, quando Ghost in the Shell arriva nelle sale giapponesi; ma già da Metropolis (1927) in poi, fino a Blade Runner (1982) e Tron (1982), tanto cinema di fantascienza aveva provato a immaginare ipotetici futuri che prevedevano la soppressione di quel confine. Quale allora la novità d’impostazione apportata dal film d’animazione giapponese? Esso ha il merito di agglutinare intorno a una classica storia d’investigazione le domande etiche che una pervasiva informatizzazione della nostra esistenza ha generato. La vicenda è ambientata in un vicinissimo 2029, un tempo a noi molto prossimo e in cui il connubio tra carne e circuiti ha dato il via alla nascita di alcune forme di vita difficilmente assimilabili dagli odierni canoni. Il miglioramento tecnico del corpo umano, attuato ormai anche nella vita civile, grazie al progresso delle nanomacchine ha raggiunto la tanto paventata serializzazione di organi. Gli agenti della sezione 9, squadra di polizia antiterroristica, hanno potuto integrare la loro fragile struttura antropica con l’implementazione interna di armi e aiuti metallici.
Ma la novità più notevole, al tempo stesso sconvolgente prefigurazione e coscienza già piena del potenziale del Web che era appena nato, consiste nella trovata che anche gli umani tecnicamente modificati possono collegarsi a una Rete globale di dati. L’uomo è così diventato un terminale: tramite uno spinotto collegato alla base del cranio, egli può digitalizzarsi e compiere tutte le operazioni a ciò connesse, dal caricare sulla propria (scheda di) memoria un file importante, fino all’invio di programmi. Piccola parentesi: più che addentrarci in forbite questioni di diritto intellettuale preferiamo notare ancora una volta l’imbarazzante scippo compiuto da una produzione hollywoodiana, in virtù della sua straripante forza distributiva, a danno di un (per il grande pubblico occidentale) film di nicchia. Ma torniamo all’analisi. Il maggiore Motoko Kusanagi rappresenta l’acme della concezione sottesa a Ghost in the Shell. (ATTENZIONE: di seguito trovate uno snodo importante della trama) Dietro parvenze ancora voluttuosamente femminili, dentro curve procaci sta, come rivela lo scontro finale con il Signore dei Pupazzi, un esoscheletro d’alluminio. Certo, il cervello del maggiore era ancora umano e forse l’anima stava lì, bastava spostarla dal cuore un po’ più su, e la nostra specificità sarebbe rimasta salva.
Sarebbe potuto esserlo se Shirow e Oshii avessero creduto al dualismo cartesiano di anima e corpo. Ma il perno fondamentale della loro visione filosofica è l’assenza di tale separazione. Lo spirito, il “ghost”, non nasce da un’innata divisione metafisica ma si forma quando l’organismo, umano o meccanico, raggiunge un certo grado di complessità. Anche se non vengono forniti ulteriori ragguagli su quale sia questo grado e sul concetto opinabilissimo di “complessità”, poiché sempre di opera artistica trattasi e non di saggio speculativo, Ghost in the Shell si spinge fino all’idea che anche la Rete possa un giorno generare, dal proprio flusso, un’autocoscienza. Il Signore dei Pupazzi non è allora liquidabile come un semplice bug di programmazione, un cyberterrorista da rinchiudere in un corpo materiale per distruggerlo ed evitare così lo scoppio di uno scandalo internazionale. D’altronde anche le ginoidi (androidi dall’aspetto femminile), protagoniste del sequel Ghost in the Shell: Innocence uscito nel 2004, metteranno Togusa di fronte a un inquietante interrogativo: «Come fa un robot a suicidarsi? Non sarebbe più appropriato chiamarla autodistruzione?». Sarà lo stesso Batou a rispondere al suo compagno di squadra, lui che aveva assistito assieme a noi spettatori al colloquio intercorso tra il Signore dei Pupazzi e il maggiore Kusanagi, lui che nonostante fosse stato isolato acusticamente da quel dialogo, aveva già ascoltato i precedenti dubbi esistenziali che l’algida Makoto aveva espresso: «Che importanza ha essere umani?».
Già, che importanza ha quando il “ghost” di una persona può essere modificato digitalmente fino a far credere a uno scapolo di lungo corso di avere moglie e figlia o fino a quando si possa usare quello di una ragazzina come una matrice per ginoidi che in tal modo aumentano il loro appeal sul mercato nero? Lo scenario più fosco, poiché è quello che ribalta la prospettiva antropocentrica con la quale siamo soliti guardare il mondo, lo disegna il Signore dei Pupazzi. Secondo un’ottica e una diagnosi freddamente calcolatrici, come in un computer, l’uomo è solo una forma di autoconservazione tra le altre, e trasmette i propri dati mnemonici tramite DNA. La sua peculiarità sta nel rinnovarsi attraverso la diversità genetica, e solo in ciò sarebbe più efficiente di una macchina, che può dare vita solo a una copia di se stessa. Il Signore dei Pupazzi propone a Makoto, a quello che di umano resta in lei, di fondersi ed eternarsi in un essere dalle potenzialità immense come la Rete. Sublime paradosso: è la macchina, l’automa, il Creato che chiede al proprio Creatore di unirsi in virtù di determinati suoi lati fisici ad esso necessari, di una sua componente intrinseca, di una sua specializzazione mancante. All’androide non interessa nulla del nostro intelletto, della nostra capacità di sentimento, della nostra etica: per i robot l’uomo non è altro che un robot.