Nietzsche, come ci ricorda Trevi, aveva dichiarato che Leopardi è stato "il più
gran prosatore del XIX secolo" e queste pagine, per chi non si è mai dedicato all'epistolario di Leopardi, aiutano ad avvicinarsi al Grande Poeta in maniera nuova, cogliendo tutta la sua umanità e la sua sensibilità attraverso le confidenze, i consigli, le speranze, le delusioni che man mano trasmette ai suoi cari. Confida di non aver tratto nessun piacere dalle Grandezze di Roma, nessuno monumento ha destato la sua curiosità e la sua attenzione; l'unico "
piacere", intendendo con esso l'intensa emozione provata, è stato il momento in cui ha visitato la Tomba di Torquato Tasso; il grande cruccio del periodo romano è il non essere stato in grado di relazionarsi con il mondo così come si era augurato; inoltre proprio la mancanza di corrispondenza fra la sua vita interiore e quella esterna aveva inaridito la prima senza che la seconda ne avesse tratto alcuna forma di beneficio o giovamento, come lo stesso Leopardi spiega nello
Zibaldone: "Andato a Roma, la necessità di conviver cogli uomini, di versarmi al di fuori, di agire, di viver esternamente, mi rese stupido, inetto, morto internamente. Divenni affatto privo e incapace di azione e di vita interna, senza perciò divenir più atto all'esterna. [...] divenuto così inetto all'interno come all'esterno, perdetti quasi affatto ogni opinione di me medesimo, ed ogni speranza di riuscita nel mondo e di far frutto alcuno nella mia vita".

Dunque catastrofico il periodo trascorso a Roma, a cui tra l'altro ritornò ancora, qualche anno dopo, nell'ottobre del 1831 in compagnia dell'amico Antonio Ranieri. Ma le cose erano intanto cambiate, Leopardi era divenuto un affermato e riconosciuto Poeta, non era più assalito dai dubbi e dalle angosce del primo soggiorno, né era più Ospite dei suoi parenti come avvenne dieci anni prima, avendo preso una casa in affitto all'angolo fra via Mario dei Fiori e via Condotti; ugualmente questo secondo soggiorno romano venne più volte definito un esilio senza trovare mai l'energia necessaria alla scrittura; di questo periodo rimane però una lettera, contenuta nel volume
Leopardi. Questa città che non finisce mai, divenuta assolutamente celebre, quella scritta il 5 dicembre del 1831 indirizzata a Fanny Targioni Tozzetti in cui Leopardi spiega, e qui utilizziamo le parole di Trevi, che "la natura ha destinato gli uomini all'infelicità sotto qualunque regime, e il suo "piccolo cervello" non riesce nemmeno a concepire "una massa felice", composta da "individui infelici".
Non si pensi però che Leopardi soffrisse ovunque,
Antonio Tabucchi nel volume
Viaggi e altri Viaggi (Feltrinelli) dedica alcune pagine al soggiorno del Poeta nella città di Pisa avvenuto fra l'autunno del 1827 e l'estate del 1828. Nel capitolo "Pisa. Dove Leopardi rinacque" Tabucchi infatti spiega: "Pisa fu cara a Leopardi, e la città gli riservò una calda ospitalità"; tutto lo aveva incantato di Pisa, la schiettezza delle persone, l'ambiente cosmopolita, l'antica università. Come racconta Tabucchi il Poeta "a Pisa sentì il cuore battere di nuovo e le emozioni che tornavano [...] rinacque a nuova vita, quella "vita del cuore", come lui la chiamò, che conduce alle sue composizioni poetiche più mirabili. A Pisa scrisse
A Silvia e
Il risorgimento, perché fu ben consapevole del proprio risorgere".